Volontariato e istituzioni. Uno schema per il futuro

Autore: 

Giuseppe Cotturri

1. Da trent’anni

La vicenda storica del volontariato contemporaneo nel nostro paese si svolge dalla metà degli anni Settanta dello scorso secolo. Organizzazioni caritative, naturalmente, esistevano già prima: alcune risalenti addirittura all’Ottocento, ma è nel 1975 che si riuniscono a Napoli alcune centinaia di dirigenti di gruppi di volontariato con l’intento di costruire un “movimento” adeguato alla crisi della politica manifesta in quel decennio. Anima quel progetto un’idea politica nuova: è possibile fare direttamente nel sociale attività per indirizzare e addirittura “vincolare” i governi del territorio. L’impatto sui governi istituzionali è dato dalla capacità di intervenire in autonomia e con risorse proprie nelle politiche sociali, sempre meno garantite dall’azione pubblica.
 
In pochi anni centinaia di gruppi di volontariato si raccolgono e si danno strumenti di organizzazione, di formazione e ricerca comune, di coordinamento (MOVI, FIVol, Convol). Padre spirituale riconosciuto è don Giovanni Nervo, allora direttore della Caritas. Infaticabile costruttore di quegli strumenti collettivi è il laico Luciano Tavazza. Sociologi come Ardigò, poi Donati e Colozzi, elaborano teoriche di riferimento. Giuristi e parlamentari come Lipari e Maria E. Martini accompagnano la crescita e propongono strumenti legislativi di sostegno. Le attività del volontariato impegnano più di un milione di individui attivi (non solo cattolici ma anche della sinistra) e forse sono qualche decina di milioni le persone raggiunte e sostenute da tale tipo di intervento non-profit. I “volontariati”  conquistano una legge nazionale di sostegno (266/1991) da cui discendono poi molte leggi regionali dello stesso segno. Parallelamente le cooperative sociali conquistano una analoga legge promozionale di settore, infine l’insieme di attività che appaiono “socialmente utili” (ONLUS) sono destinatarie di un’altra legge che assicura vantaggi fiscali.  Il volontariato dunque assume ruolo di “apripista” e forza trainante verso l’universo di associazioni che poi confluiranno in una organizzazione comune di “Terzo Settore” (1994: nascita del Forum TS). Tutte queste esperienze infine saranno protagoniste nella seconda metà di quel decennio Novanta del dibattito culturale relativo alla “sussidiarietà orizzontale” come motore di un diverso sviluppo nel territorio, che poi sarà recepito dalla revisione costituzionale relativa al Titolo V nel 2001, in particolare scritto nell’art.118, comma quarto.

L’indicazione costituzionale introduce una correzione e una tensione con il sistema che s’era costruito negli anni immediatamente precedenti, con le leggi di settore: ma sono dieci anni che questa tensione non riesce a fissare un indirizzo largamente condiviso. E questo è problema cruciale, per intendere in che senso il rapporto volontariato/istituzioni debba essere configurato oggi e negli anni a venire (mi permetto di rinviare al volume curato da me e G. Arena, Il valore aggiunto, Carocci 2010).
 

Nell’arco di poco più di tre decenni quindi il rapporto tra volontariato/associazionismo e istituzioni di governo ha assunto connotazioni via via variate: nella fase pionieristica la cultura del “privato-sociale” (così fu definita questa realtà sociale in espansione) mostrava diffidenza verso la regolamentazione pubblica e verso il sistema dei partiti; poi si convenne sulla utilità di una legislazione nazionale (e a cascata: regionale) “promozionale” e di sostegno. Questo ordinamento si è affermato e espanso negli anni Novanta. La caratteristica delle leggi differenziate per tipologia di soggetto sociale (volontariato, cooperativa sociale, associazione di promozione sociale) si è tradotta in un “sistema a canne d’organo” che operando per riconoscimenti formali, iscrizione in pubblici registri e accesso riservato a sostegni economici e finanziamenti per progetti, ha finito col produrre effetti di istituzionalizzazione del sistema sociale volontario e, più in generale, non-profit. Conseguentemente, dopo la crisi della rappresentanza e dei partiti, il governo politico-amministrativo su questo variegato universo ha avuto possibilità di recupero con meccanismi efficaci ai propri fini, ma di cui però è dubbia la idoneità a stimolare capacità autonome di questi soggetti di innovare, crescere, intervenire in territori e forme anche nuove. Anzi sembra che esse, per riflesso e conseguenza della istituzionalizzazione in quelle forme, possano risultare concretamente assoggettate alla capacità della politica di intendere i bisogni e progettare il futuro. Una sorta di primato della politica nella direzione della società dunque sembra riaffermato nei fatti da tali esiti dello sviluppo delle politiche e delle istituzioni di Terzo Settore.  

Il fatto è che l’intera fase è dominata da una preoccupazione di restrizione dei bilanci pubblici, con spinte crescenti a sussumere il non-profit in ruoli di integrazione dell’assistenza sociale in parziale sostituzione degli interventi pubblici per il welfare, che in tutti i paesi avanzati comincia ad essere attaccato e ridotto nel segno di dottrine neoliberiste, subito dopo la fine della sfida con sistemi socialisti (“l’implosione” e la fine dell’URSS sono del 1991) e l’affermazione dei mercati e della globalizzazione come nuovo orizzonte della civiltà.
 
La rilevanza dell’autonomia dell’iniziativa sociale per ricostituire sfere pubbliche accettabili, invece che scenari di privatizzazioni incontrollate, però, forse inaspettatamente, ha trovato sanzione autorevole in Italia nel riconoscimento costituzionale del 2001. Cosicché, alla luce dell’indirizzo dell’art.118 Cost. sulla sussidiarietà, il rapporto tra universo sociale (volontario-associativo) e le istituzioni di governo (nazionali e del territorio) deve essere configurato nel seguente schema ideale: autonomia delle attività di cittadini dirette a realizzare “interessi generali”/sostegno obbligatorio da parte delle istituzioni a tali attività. Si badi bene: favorire le attività, non le organizzazioni come tali (a questo provvedono le leggi di settore). Quindi in conclusione dal 2001 nella nostra sfera pubblica è iscritto un “potere di cittadinanza attiva” cui in astratto è riconosciuta capacità di realizzare “l’interesse generale”: questa vecchia espressione della teoria politica democratica possiamo operativamente tradurre nella idoneità a produrre e conservare “beni comuni” del paese, sia materiali che immateriali. Tra indirizzo costituzionale e sistema legislativo nazionale-regionale c’è quindi tensione: gli assetti costruiti dalle amministrazioni regionali-locali e le politiche poste in essere sono da misurare alla luce del modello di sussidiarietà pubblico-privato che la Costituzione indica. Ma, come s’è detto, da dieci anni questo indirizzo ancora non ha espresso tutte le sue potenzialità. Anzi: in molti casi regionali si è piegato il principio di sussidiarietà a obiettivi congiunturali più modesti (consentire nella crisi di bilancio e di welfare pubblico il ritiro del pubblico dalla responsabilità per servizi commisurati ai diritti sociali, e integrare in un “sistema misto”  tutte quelle attività non-profit dei privati che possono attenuare il bisogno e la povertà crescenti). Neppure questi sono obiettivi disprezzabili, o non pertinenti alla ricerca di interessi generali. Ma la formula della Costituzione è più aperta e, combinata con la chiara affermazione costituzionale della necessità di prioritarie garanzie pubbliche per la soddisfazione di diritti sociali, apre ai soggetti sociali una prospettiva assai più larga e progressiva: la sussidiarietà iscritta in Costituzione è, in ipotesi, potere dei cittadini per l’attuazione dei diritti sociali promessi e tutela attiva dei beni comuni necessari.
 
In conclusione il rapporto volontariato/istituzioni, a seguito di tale complessa vicenda, oscilla da un più tradizionale governo dall’alto (esecutivi e PA indirizzano e controllano la “integrazione passiva” delle organizzazioni non-profit in un disegno tutto politico di completamento/sostituzione delle politiche sociali pubbliche) a tentativi di innovazione in cui l’intervento pubblico non ha pretese esclusive di progettazione sociale, ma sa assumere una funzione “promozionale” verso la formazione di “capitale sociale”, nel rispetto delle diverse autonomie di individui e gruppi, che a seguito della crescita collettiva possono dispiegarsi. Tale più maturo quadro combina dunque spinte e iniziative dal basso con una responsabilità pubblica-collettiva rispetto alla crescita individuale e sociale che rende possibile l’esercizio stesso di autonomie. Un’idea di crescita della persona dunque, non secondo parametri economico-quantitativi, è al centro di una ipotesi di allargamento della democrazia e partecipazione collettiva.
 

2. Il disegno della Costituzione

Tale approdo, se ci si pensa, è punto di arrivo dello stesso progetto costituzionale, che nel 1948 già indicava in queste leve il dispositivo fondamentale dello sviluppo del paese. Riconosciuto al lavoro il ruolo portante della Repubblica (art.1), lo sviluppo della persona umana ritenuto prioritario (art.2) impegna le istituzioni di ogni livello a “rimuovere gli ostacoli di fatto” che limitano tale crescita e impediscono la partecipazione di tutti alla organizzazione della vita pubblica (art.3). Crescita della persona, dunque, e partecipazione di tutti alla vita pubblica: questi i capisaldi di un disegno di tempo lungo. Come dovesse essere articolata la partecipazione di tutti e quali indirizzi dovessero positivamente derivarne non era ovviamente possibile fissare nella Carta a quella data. L’indicazione era di percorso. Cinquant’anni dopo un paese, che alle origini risultava essere serrato in un costume uniforme e dominante di “familismo amorale”, mostra luci e ombre ma non è certamente riconducibile alla sola modalità del familismo. Certo, amoralità caratterizza non poche posizioni pubbliche e private: larghe fasce di interessi clientelari si intrecciano con forze di speculazione e interessi “predatori” verso la comunità (che la pubblicistica recente chiama: vandali). I partiti stessi sono veicolo e ricettacolo di interessi speculativi e di corruzioni. Ma un quinto della popolazione (19-20% dati ISTAT multiuso)  da decenni si è ostinatamente attestato e attrezzato per la cura di beni comuni in spirito di volontariato e non-profit. E’ il peso e la rilevanza di queste forze che ha fatto scrivere nel 2001 quella revisione del 118: il progetto degli artt.2 e 3 fu così confermato ma anche portato a un esito originariamente imprevisto. La solidarietà delle norme del ’48 è una solidarietà imposta (riconoscimento di diritti in cambio del rispetto di “inderogabili doveri”: art. 2, 4 e tanti altri). Era il linguaggio di élites severe, conscie della necessità anche pedagogica di dover formare cittadini responsabili, laddove il fascismo aveva imposto passività e obbedienza. Con la prescrizione nella Carta fondamentale dei doveri di solidarietà civile e politica degli individui, c’erano anche compiti pubblici di garanzia dei diritti sociali e quindi delle precondizioni della uguaglianza e partecipazione: anche qui il linguaggio era quello del dovuto

Ma cinquant’anni dopo gli apparati pubblici appaiono insufficienti e talvolta inadeguati a prestare i servizi e le garanzie dei diritti sociali, mentre per l’esercizio concreto di solidarietà c’è almeno una parte della cittadinanza che ha appreso a assumere responsabilità dirette di intervento nelle politiche sociali: ecco dunque che con la revisione del 2001 il dispositivo del cambiamento degli artt. 2 e 3 potè essere declinato in termini più realistici e, forse, fecondi. Non c’era solo la solidarietà mossa dal potere pubblico su cui fare conto; c’era e c’è tutto uno spazio di libertà e di autonomia, che forze sociali hanno utilizzato per costruire solidarietà come scelta propria e responsabile anche dal basso. E su tali forze si può disegnare una differente dialettica: pubblico e privato convergono in azioni di reciproco aiuto, con una circolarità virtuosa di iniziative a questi fini. Quindi la nuova edizione della norma ha potuto essere scritta non nel solo linguaggio della doverosità e della preminenza dei poteri pubblici. Si è potuto scrivere quindi che, se e quando singoli cittadini o loro organizzazioni mostrano di poter provvedere all’interesse generale, alle istituzioni tocca accogliere e mettere a frutto della comunità queste autonome attività solidali, ancorché volontarie e minoritarie. Nella lingua delle possibilità, per le istituzioni è scritto che esse devono “favorire”.
 
Dalla solidarietà come obbligo, alla solidarietà come possibilità della libertà: quello che non poteva essere scritto nel ’48, nel 2001 è stato invece un esito naturale di una storia di crescita effettivamente avvenuta, sia pure con le sue contraddizioni e i suoi limiti. L’art.118 è la sanzione di questo percorso reale. La Costituzione non è smentita, né superata: ma sviluppi da essa stessa indicati, allorché si sono realizzati, hanno consentito di specificare ipotesi, che alle origini erano impensabili. La partecipazione diretta di cittadini alla “sovranità amministrativa” e la legittimazione di minoranze – anche di singoli – all’esercizio di iniziative per le realizzazione di interessi generali: erano sbocchi impensabili per una Repubblica che, uscita dal fascismo e dalla guerra, doveva cominciare perfino a costruire cittadini e costumi di cittadinanza fino ad allora del tutti inesistenti.
 

3. La formazione di capitale sociale

La vicenda reale si è incaricata dunque di mostrare la possibilità di questa costruzione e, alla luce delle esperienze in corso, si può ora precisare anche un aspetto di solito poco considerato. La presenza diffusa di competenze civiche idonee a intervenire per il governo pubblico, il senso di responsabilità dei cittadini, la fiducia di essi nelle istituzioni: sono caratteristiche indicate dalla scienza sociale e politica come espressione di un “capitale sociale”, la cui sedimentazione in ambienti politico-sociali complessi assicura anche migliore “rendimento” delle istituzioni democratiche. Si riflette poco tuttavia su come l’accumulo di tale capitale avvenga, e soprattutto sulla reciproca responsabilità che organizzazioni civili e istituzioni politiche hanno in tale processo di accumulazione. Qualche rigo sopra ho anzi usato la parola “sedimentazione”, poiché lo studioso americano che ha dato rilievo a tale problema (Robert Putnam) ha manifestato la convinzione che si tratti di una sedimentazione plurisecolare di credenze e buone prassi civiche, su cui la politica e gli stessi “cittadini attivi” nel breve periodo possono poco. Ma poi a quello stesso studioso – che aveva forgiato le sue categorie con riferimento specifico alla storia italiana – è capitato di osservare in quanti pochi anni nel suo paese il civismo decadesse. E così ha avuto inizio una più larga riflessione nella scienza sociale e in quella politica, sulle condizioni che assicurano qualità alle democrazie e sul rapporto tra indirizzi politici di fondo (politic) e orientamenti delle popolazioni verso la politica e i beni comuni (policies).
 
Naturalmente in questa sede non si possono approfondire questi temi. Ma credo sia stato utile indicarne la pregnanza. Gli approcci più recenti misurano tali questioni in termini temporali assai più accorciati (ciclo politico, o fasi): scansioni temporali idonee a segnalare le possibilità e la responsabilità che attori determinati hanno circa l’affermazione e il successo, o l’insuccesso, di azioni dirette a concretizzare “l’interesse generale”. Due sembrano essere i modelli che la politica della sussidiarietà  rende possibile. Un modello è imperniato sul miglioramento dei processi decisionali pubblici, nella supposizione che la “direzione politica” della collettività sia funzione possibile solo attraverso sofisticate costruzioni degli spazi e degli apparati pubblici: in fondo tutte le esperienze di “democrazia partecipativa”, di cui tanto si discute, sono ricondotte a questo fine preminente. Emerge tuttavia un diverso modello che, riconosciuti i limiti e anche le “derive” degli apparati politico-burocratici pubblici, punta a bilanciare e integrare i poteri di direzione politica con la valorizzazione di iniziative sociali anche “informali” e comunque autonome, qualora si dirigano a interessi generali e beni comuni. Le regole di ammissione e valutazione di questi apporti informali e dal basso sono naturalmente un problema, e su questo oggi è concentrato un notevole sforzo di sperimentazione e definizione. Ma che il secondo modello sia entrato di diritto nelle possibilità democratiche è fissato da quell’art.118 della Costituzione, e così anche è fissata la regola del rapporto tra iniziativa autonoma del sociale e istituzioni: le istituzioni  devono favorire, accogliere, seguire, completare quanto i cittadini con libera iniziativa mostrano utile al bene comune.
 
Nella crisi che stiamo attraversando, che ha origine nei processi finanziari mondiali, la distruttività delle scelte di puro taglio dei bilanci e dei sistemi di welfare mette in evidenza che le vie sperimentate da soggetti di volontariato e in genere non-profit, e le innovazioni che essi portano, non riguardano solo la pratica di adattamento sociale alle ricette dei politici. Che, si ripete, non sembrano capaci di immaginare altro che tagli indiscriminati e quindi riduzione della stessa possibilità di riproduzione sociale. Le vie dell’autonoma ricerca sociale alludono alla eventualità che soluzioni, cui i politici non possono nemmeno pensare, siano invece praticabili se i cittadini stessi le concepiscono e ci si impegnino. Insomma, nella crisi il rilancio dei temi dell’autonomia dei cittadini solleva la speranza che altre possano essere le scelte. Il sostegno quindi a questa modalità di rapporto società/istituzioni, nella crisi, significa sostegno a una speranza di sviluppo non misurato sulla crescita economica (e sul profitto di pochi), ma sulla qualità della convivenza comune e sul valore della solidarietà umana.
 
Un percorso di questo tipo si sta facendo nel Mezzogiorno con l’occhio alle contraddizioni generali del paese. La politica della Lega, in sostanza, ha puntato con grettezza corporativo-territoriale a restringere l’area in cui si conserva welfare, attraverso il trattenimento delle sempre più scarse risorse pubbliche nelle aree economicamente più forti. In alternativa è agitata la minaccia di rottura  e secessione. Così un pensiero miope e perdente ha diffuso nel Nord una pratica autolesionista: il Nord sembra segare il ramo su cui è seduto, poiché non c’è alcun dubbio che lo sviluppo del Nord si è avvantaggiato della possibilità di tener asservito il Mezzogiorno alle proprie strategie di sviluppo, e ancora oggi esso salva per sé risorse che l’Europa destina al Mezzogiorno affinchè siano recuperati i suoi storici “ritardi”.

Per questo al Sud si sta prospettando una diversa strategia: la Fondazione per il Sud e il Forum del Terzo Settore stanno da due anni puntando sulla formazione di quadri dirigenti del Terzo Settore meridionale. Partendo dalla conoscenza della crescita di questo tipo di presenza, a seguito delle leggi degli anni Novanta, la domanda è se tale capitale sociale possa essere speso per una prioritaria tutela di beni comuni, che restituiscano non solo al Mezzogiorno ma al paese tutto la speranza di una ripresa, segnando una via politica e culturale opposta agli egoismi localistico-regionali che fin qui hanno dominato. Il rapporto tra associazionismo di Terzo Settore e istituzioni regionali e locali dovrebbe essere definito pertanto nei termini di un nuovo patto di sussidiarietà. Come si vede, questa sarebbe una modalità nuova, allo stesso tempo politica e partecipata, comunque più avanzata e impegnativa, di determinare quel rapporto, rispetto ai decenni recenti (fase della indifferenza, poi fase del sostegno promozionale, poi fase della possibilità di intervento dal basso costituzionalmente garantita). Dovremmo poter aprire con concordi intenti una fase di patto generale di sussidiarietà, che sappia articolare obiettivi adeguati tanto al Nord che al Sud, per un futuro del paese fuori dalla crisi.   

Comunicazione al convegno “Facciamo la differenza!”, 27-29 maggio 2011
promosso dal Centro di servizi per il volontariato della Provincia di Trento

 
 
 

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