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Introduzione [*]
La riflessione proposta in questo scritto parte dall’art. 15 della legge sul volontariato e dalla applicazione che ad essa è stata data attraverso il DM 8 ottobre del 1997. Il legislatore dal 1991, a ben vedere, ha imposto a soggetti della comunità civile, ossia alle fondazioni di origine bancaria e alle casse di risparmio, di destinare una quota dei propri proventi alla costituzione di fondi speciali per il volontariato presso le Regioni; e ciò al fine di istituire i Centri di servizio (CSV) a disposizione delle Organizzazioni di volontariato (ODV), e da queste gestiti, con la funzione di sostenerne e qualificarne l'attività. Un complesso di norme e regole che ha, quasi per caso, creato un meccanismo di sussidiarietà interessante e che i diversi soggetti – fondazioni, CoGe e CSV – dovrebbero cercare di preservare e far funzionare al meglio, se hanno davvero a cuore il principio di sussidiarietà orizzontale [1].
Il legislatore nazionale, e i diversi governi che si sono succeduti dal 91’ in poi hanno creato un meccanismo articolato e complesso (Figura 1) per la gestione del Fondo speciale, in quanto il finanziamento degli interventi a sostegno del volontariato non è direttamente deciso dalle fondazioni, bensì passa attraverso il CoGe, che amministra e gestisce il Fondo speciale, e i CSV costituiti con la finalità “per obbligo di legge” di realizzare iniziative a favore del volontariato. La legge-quadro 266/91, dunque, ha il merito di aver introdotto, a vantaggio dell’efficienza e del benessere sociale, un “meccanismo di finanziamento”, centrato sulla fonte “privata”. Essa ha quindi contribuito, ad affermare il “principio di autonomia” del volontariato organizzato, in quanto lo “sganciamento” dal finanziamento pubblico - che ha condizionato e, per molte realtà del terzo settore, continua a condizionare in maniera consistente la strategia di sviluppo determinandone e orientandone la programmazione, le scelte operative, il sistema di relazioni e di alleanze - rappresenta un presupposto indispensabile per l’attuazione di quel principio ritenuto ispiratore e fondante dell’azione volontaria (e del terzo settore), ovvero il principio di sussidiarietà orizzontale [2].
Più nel dettaglio, il lavoro è organizzato in tre sezioni. Nella prima, si analizza la “ratio” del Fondo speciale per il Volontariato. In altre parole, ci si chiede se sia più appropriato considerare l’art. 15 un “atto di espropriazione” a danno delle fondazioni o, piuttosto, un “atto di liberalità” di queste a sostegno dell’azione volontaria. La nostra conclusione sarà la seguente: le stesse fondazioni sono passate dalla prima posizione alla seconda, cosicché oggi è ben possibile leggere (e declinare nel concreto) la disposizione dell’art. 15 come una norma che ha orientato in una specifica direzione una quota degli atti di liberalità delle fondazioni attribuendo a queste realtà del terzo settore un ruolo centrale in un interessante meccanismo di sussidiarietà esistente nel nostro ordinamento (sez. 1).
Nella seconda sezione si esamina, più nel dettaglio, la natura dei rapporti che intercorrono tra gli attori di questo complesso processo, prendendo in esame anche le strutture di governance di Coge e CSV. Il modello teorico di riferimento utilizzato è il modello principale-agente (Jensen, e Meckling, 1976; Radner, 1985; Williamson, 1975; Holmstrom, Milgrom 1987), esso viene utilizzato per cercare di inquadrare ruoli e compiti di Coge (che riveste il ruolo di principale) e CSV (che sono da considerarsi agenti) (sez. 2., 2.1, 2.2).
Si propone, infine, nell’ultima sezione, una possibile strategia di intervento per il corretto utilizzo del modello predisposto dall’art. 15, o meglio, delle risorse economiche di natura “privata” finalizzate ad attività, interventi e servizi di “interesse generale”: la redazione del bilancio sociale.L’adozione da parte dei CSV di questo strumento integrativo di valutazione (nel senso etimologico del “dar valore”) dell’attività istituzionale dei CSV, secondo criteri di efficienza ed efficacia con riferimento ad indicatori e metodologie adatte al caso specifico, consente, da un lato, di ampliare il set informativo sia dei Coge che delle fondazioni; dall’altro, permette ai CSV (enti che realizzano il principio di sussidiarietà) di comunicare alla controparte informazioni rilevanti nelle attività svolte e sul perseguimento degli obiettivi istituzionali (sez. 3).
In altre parole, il mondo del volontariato dovrebbe sviluppare, attraverso strumenti di rendicontazione sociale (extra-contabile), la cultura della accountability verso l’esterno, incentrata sulla comunicazione trasparente dei risultati ottenuti nelle diverse attività poste in essere (promozione, comunicazione, formazione, ecc.).
Se è vero, infatti, che nel corso degli ultimi venti anni è aumentato il ruolo sociale del volontariato organizzato, è anche vero che le attività svolte implicano sempre più spesso la gestione di risorse economiche non marginali. Pertanto, concetti come “trasparenza”, “controllo”, “responsabilità sociale”, di dominio esclusivo fino a un recente passato del mondo dell’economia di mercato, devono necessariamente essere introdotti e richiesti anche nel settore degli enti che operano senza scopo di lucro al fine di raggiungere il tanto auspicato “bilanciamento imparziale tra i molteplici interessi (legittimi) in gioco”.
Figura 1 – Un modello gerarchico per il volontariato organizzato
1. L’art. 15 della l. 266/1991: un’espropriazione per pubblica utilità o un atto di liberalità delle fondazioni?
Non è facile comprendere e ricostruire, seppur per grandi linee, il rapporto tra le fondazioni bancarie e il mondo del volontariato, da sempre fortemente dibattuto. La conflittualità tra fondazioni e mondo del volontariato è emersa già immediatamente dopo l’approvazione della legge n. 266, laddove le fondazioni lamentavano la natura di “tributo di scopo” [4] dell’obbligo imposto di versare il quindicesimo dei propri proventi. Ugualmente, i CSV hanno visto progressivamente comprimere la loro autonomia nell’indirizzo del loro sviluppo e nella determinazione dell’utilizzo delle risorse ad esse destinate, a seguito dell’istituzione dei CoGe, chiamati ad amministrare i fondi speciali del volontariato ed in particolare dell’atto di indirizzo Visco che ha chiaramente dimezzato la quota dei proventi da destinare all’art. 15 della legge 266/91.
A ben vedere, le opposizioni delle fondazioni ravvisavano nell’art. 15 delle legge 266/91 una sorta di espropriazione che comprimeva l’autonoma determinazione della destinazione dei fondi dovuta da un’ingerenza pubblica. A sostegno di tale orientamento ci si potrebbe appellare alla giurisprudenza della Corte costituzionale [5], secondo la quale spetterebbe agli organi delle fondazioni affermare nei fatti la loro autonomia sul piano del loro agire istituzionale. Tuttavia, se si guarda all’espropriazione come ad una manifestazione tipica della sovranità statale, che si identifica in un procedimento ablatorio, consistente in un complesso di norme e principi preordinati alla regolamentazione del trasferimento coattivo di proprietà dal privato al “pubblico”, essa realizza una limitazione del diritto soggettivo di proprietà (d’impresa), che non è successiva all’instaurazione del procedimento espropriativo, bensì è insita nello stesso diritto di proprietà, quale condizione originaria.
L’art. 42, secondo comma, della Costituzione, autorizza, infatti, il legislatore ad introdurre precise limitazioni alla proprietà privata, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. L’intervento del legislatore, che impone l’obbligo alle fondazioni di versare il quindicesimo dei propri proventi, ha una natura prettamente conformativa, in quanto le richiamate limitazioni agiscono sull’ampiezza del contenuto del diritto di proprietà e dipendono della destinazione o del carattere dei beni privati. La stessa Corte costituzionale ha distinto tra vincoli conformativi della proprietà privata e vincoli preordinati al futuro esproprio: mentre i primi hanno lo scopo di conformare i beni al perseguimento dell’interesse pubblico, con salvaguardia di quello privato ed, in quanto tale, non implicano un obbligo di indennizzo, i secondi, invece, hanno un contenuto sostanzialmente ablatorio (cd. espropriazioni anomale) e la loro apposizione a beni determinati deve essere compensata da un equivalente valore monetario.
Le fondazioni di origine bancaria, “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali” [6], sono investitori istituzionali che dall’investimento dei loro patrimoni traggono gli utili necessari per svolgere l’attività filantropica, rivolta a vari settori di interesse collettivo [7].
Gli “utili” delle fondazioni di origine bancaria rientrano nella categoria di beni privati di interesse pubblico. Sono quei beni, in particolare, appartenenti a privati, e impiegati, per destinazione istituzionale, al conseguimento di finalità di interesse pubblico. A tal proposito, occorre sottolineare come la Consulta abbia più volte ripreso “la teoria dei beni privati di interesse pubblico” [8], prescelti quale strumento di conformazione e di concretizzazione della clausola della funzione sociale, collocando in questa ampia categoria i beni per i quali legittimamente si elude l’obbligo dell’indennizzo.
Quanto detto sino ad ora sta a sottolineare che, l’opposizione delle fondazioni di origine bancaria, quali finanziatori forzosi del volontariato, non troverebbe, a giudizio di chi scrive, un concreto fondamento giuridico, dato che l’autonomia gestionale e statutaria delle fondazioni non viene meno se, per ragioni di interesse generale (in un’ottica di bilanciamento di interessi), vengano previste delle limitazioni riferite alla destinazione del patrimonio delle fondazioni, in ragione della funzione sociale delle attività di volontariato. Detto altrimenti, il richiamo alla “funzione sociale” giustificherebbe e renderebbe legittimi gli interventi del legislatore che pongono limiti e che definiscono l’ambito dei poteri e dell’autonomia delle fondazioni.
Le incomprensioni fra fondazioni e mondo del volontariato permangono tutt’ora, nonostante i numerosi accordi che si sono succeduti dal 2005 ad oggi. Lo strumento dell’accordo sembrava una possibile via per attenuare i conflitti tra questi due attori.
Attraverso il Protocollo d’intesa del 5 ottobre 2005 tra il mondo del volontariato e le fondazioni [9], le parti interessate diedero origine alla Fondazione per il Sud, il cui patrimonio si è costituito prevalentemente attraverso l’extraccantonamento Visco non erogato dal 2001 al 2005. Fu stabilito, così, di ripartire le risorse relative all’extraccantonamento per cinque anni (dal 2006 al 2010) in questi termini: 40% a Fondazione per il Sud, 40% ai CSV del Sud, 20% ai CSV delle altre regioni.
Questo evento ha accelerato il processo di confronto e collaborazione con i Coge e le fondazioni bancarie per affrontare i problemi relativi ai CSV ed individuare le modalità più adatte per valorizzare il loro contributo a sostegno del volontariato.
Nel giugno 2010, è stato siglato un ulteriore accordo [10], in base al quale per i prossimi cinque anni, al di là degli andamenti del mercato, le fondazioni dovrebbero erogare risorse stabili ai CSV per il volontariato: 60 milioni l’anno, di cui una quota (decrescente da 49 a 46 milioni) d’intesa con i CoGe dovrà essere utilizzata per i servizi e la rimanente parte, d’intesa con le fondazioni, per la progettazione sociale. Altre importanti risorse andrebbero alla Fondazione per il Sud: 24,4 milioni di euro all’anno di cui almeno 5 dovranno essere destinati alla progettazione sociale del volontariato, in collaborazione con i CSV.
Importante è anche la parte dell’accordo che stabilisce un sistema di perequazione tra territori: le fondazioni, infatti, sono tenute ad erogare ai CSV 1/15 dei loro avanzi di esercizio (art. 15 della legge 266/91), ma essendo distribuite in modo diseguale sul territorio, succede che ci sono regioni i cui CSV godono di finanziamenti enormemente superiori a quelli di altre (tra le penalizzate ci sono Lombardia, Lazio e le regioni del Sud). Pertanto, siffatto meccanismo perequativo favorirebbe: l’introduzione di un nuovo modello di ripartizione regionale dei fondi per i CSV, fondato su un ventaglio allargato di fattori, non solo demografici (come quelli adottati finora), ma anche riferiti al il numero di ODV, alla struttura e alle condizioni economiche del territorio; l’introduzione di un sistema premiale, attraverso cui distribuire una quota pari al 10% dei fondi disponibili, secondo criteri da definirsi in accordi successivi; l’impegno ad analizzare a fondo il funzionamento dei sistemi regionali dei CoGe e dei CSV. Per questo l’accordo prevede anche che i soggetti coinvolti promuovano l’adozione di un modello unificato di rendicontazione dell’attività dei CSV e dei CoGe. E’ facoltà del CoGe, infatti, concordare con i CSV le modalità di contabilizzazione, le procedure operative e gli schemi di bilancio preventivo e consuntivo da adottare per rendere uniforme su tutto il territorio regionale l’azione di controllo [11].
Questo nuovo accordo garantirebbe un superamento dei limiti caratterizzanti il precedente meccanismo di finanziamento che portava a determinare i fondi annuali in percentuale rispetto all’andamento delle fondazioni e a vincolarne l’utilizzo nell’anno di assegnazione, generando un’effettiva impossibilità di effettuare una programmazione a lungo termine. Allo stesso tempo, l’impegno quinquennale delle fondazioni, che stabilmente dovrebbero erogare risorse ai CSV, consentirebbe il superamento delle difficoltà collegate ai tempi di rinnovo dei Coge, dato che, non si corre il rischio che gli stessi decidano su assegnazioni di quote intere o parziali di altre annualità e provenienti da altre fondazioni.
A nostro avviso, l’accordo, derivante da un atto di liberalità, da un alto coerente e rispettoso di quei vincoli che legano le fondazioni alla collettività per svolgere doveri di solidarietà economica e sociale e, dall’altro, in linea con la mission dei CSV, chiamati a sostenere e a qualificare l’attività di volontariato, diviene lo strumento più efficace per sostenere e favorire il mondo del volontariato nell’interesse della comunità civile, a patto che venga pienamente rispettato in tutte le sue parti dai soggetti firmatari.
In quest’ottica, mediante l’accordo, che ha la natura di atto di liberalità, le fondazioni bancarie, organizzazioni “orizzontali”, si impegnano a concorrere nella perequazione, attivandosi autonomamente e ponendo il non profit in un rapporto di complementarietà autonomistica e non di subordinazione finanziaria con il settore pubblico e con le stesse fondazioni dando concretezza al principio di sussidiarietà orizzontale che, da un lato, intende favorire un’autonoma attivazione da parte delle formazioni sociali nella realizzazione di fini di pubblica utilità; dall’altro, esprime la necessità di stimolare uno spirito di collaborazione e di co-decisione da parte di tutti i soggetti coinvolti nell’attuazione delle politiche sociali.
Bisogna, infatti, sottolineare che il legame tra fondazioni bancarie, CoGe e CSV ha dato avvio ad una riorganizzazione complessa degli strumenti concreti di attuazione della sussidiarietà, che non deriva unicamente dallo sganciamento dal finanziamento pubblico, realizzato dalle fondazioni, ma anche dai criteri di selezione dei soggetti del privato sociale a cui spetta l’esercizio delle attività di interesse generale (CSV/ODV) e dalla predisposizione di un sistema di regole e di controllo che tutelino i destinatari delle prestazioni erogate, garantito dal CoGe. É bene rimarcare, infatti, che anche le modalità con cui si gestiscono le risorse economiche per finalità sociali rivestono un ruolo cruciale rispetto all’attuazione della sussidiarietà orizzontale. E, quindi, la funzione di controllo “collaborativo”, esercitata dal CoGe sui CSV, può divenire una garanzia non solo per il controllore, ma anche per il controllato e, più in generale, per gli interessi sociali da tutelare, in nome del principio di sussidiarietà.
Se la sussidiarietà orizzontale chiede al privato sociale di assumersi la responsabilità nell’offrire prestazioni rivolte all’interesse altrui, i rapporti “sussidiari” tra fondazioni bancarie, CoGe, CSV, enti locali ed ODV, letti in quest’ottica, possono dare una risposta concreta a tale richiesta e nuove possibilità di espressione ai bisogni della collettività.
2. Il rapporto tra i Coge e i CSV nella prospettiva teorica del modello principale-agente
Per approfondire i rapporti tra i CoGe e i CSV e le modalità attraverso le quali questi potrebbero essere esercitati in una ottica di sussidiarietà è utile applicare un modello teorico molto usato nella letteratura economica, il modello principale-agente (o modello di agenzia); esso verrà utilizzato soprattutto per analizzare i rapporti tra il CoGe (che riveste il ruolo di principale) e i CSV (che sono da considerarsi agenti). Ovviamente la scelta di utilizzare questo modello interpretativo è legata alla particolare utilità e adattabilità di esso, studiato e sperimentato in varie tipologie di interazione tra agenti economici sin dagli anni ’80 del secolo scorso. Nel caso di specie, trattandosi di una relazione tra istituzioni, non è tanto alla fattispecie della contrattualistica civilistica che faremo riferimento, ma ad uno schema di delega connesso con asimmetrie informative a vantaggio dell’agente.
Nella teoria economica, infatti, si definisce “relazione di agenzia” una situazione nella quale un soggetto (il principale) delega ad un altro soggetto (l’agente) il potere discrezionale di svolgere per proprio conto e nel proprio interesse un determinato compito sulla base delle specifiche conoscenze e competenze da questi possedute.
In tutti i rapporti di delega, a ben vedere, possono sorgere fenomeni di opportunismo, in particolare, il delegante (il principale) può ricevere dei danni dai comportamenti opportunistici del delegato (l’agente), il quale sfrutta un vantaggio informativo rispetto al delegante per i propri fini, i quali spesso sono in contrasto con i fini del delegante. E’, come si è detto, evidente che nei rapporti tra principale e agente vi è un’asimmetria informativa a vantaggio (in genere) dell’agente che è all’origine della possibilità di quest’ultimo di agire parzialmente o interamente a proprio vantaggio e non a vantaggio del principale. Il vantaggio informativo dell’agente si concretizza anche nel fatto che il principale non conosce - o non può conoscere senza affrontare costi molto elevati per raccogliere l’informazione – fino a che punto le azioni dell’agente nel perseguire gli interessi del principale siano state condizionate dalla volontà di massimizzare il proprio benessere piuttosto che quello del principale. Inoltre, il principale potrebbe non conoscere - o conoscere solo attraverso una costosa raccolta di informazioni - il reale comportamento dell’agente; in altri termini, non è in grado di sapere se esso ha perseguito l’interesse del principale.
La letteratura economica ha messo in evidenza che esistono due livelli di asimmetria informativa: il primo livello di asimmetria riguarda la conoscenza delle caratteristiche personali degli agenti, ed è un problema in genere “pre-contrattuale” che può dare vita, in particolare, ai problemi di selezione avversa (adverse selection) molto studiati in letteratura dagli anni ’70 del secolo scorso in poi (l’articolo seminale è di Akerlof, 1970); il secondo livello di asimmetria riguarda le azioni degli agenti una volta che essi operano per conto del principale, a seguito, per esempio, della stipula del contratto; in tal caso, si tratta di un problema “post-contrattuale” che può dar vita a fenomeni di azzardo morale (moral hazard) o a comportamenti opportunistici di altro genere.
In entrambi i casi si hanno “fallimenti del contratto” nel senso che in entrambi i casi si hanno esiti della contrattazione diversi da quelli che si avrebbero in presenza di informazione perfetta: si concludono contratti con operatori diversi, si siglano contratti non convenienti o si pagano prezzi più alti di quelli dell’equilibrio concorrenziale.
Il paradigma interpretativo appena descritto appare, come si è detto, particolarmente idoneo ad analizzare, dal punto di vista della teoria economica, la relazione esistente tra i CSV che assumono il ruolo di agenti, e il CoGe, che assume nel nostro schema il ruolo di principale, costituito con la finalità di amministrare somme destinate alla qualificazione e al sostegno delle attività di volontariato (art 15, comma 1, l. 266/91). A ben vedere il paradigma del rapporto principale-agente potrebbe essere utilizzato anche per spiegare il rapporto tra enti proprietari del fondo speciale (innanzitutto le fondazioni, ma non solo esse) e CoGe. Tuttavia, non approfondiremo in questa sede questa ipotesi interpretativa, ma cercheremo di chiarire il modo in cui la struttura di governance dei CoGe può influenzare il rapporto CoGe - CSV come rapporto principale-agente.
2.1 Convergenza e/o conflitto degli obiettivi?
Il CoGe è, dunque, il principale del rapporto di agenzia. Esso non ha la possibilità di controllare l’operato degli agenti, in quanto il flusso di informazioni che gli perviene non può che essere incompleto nel rappresentare attività e risultati raggiunti dai CSV [12]. D’altra parte, il tipo di azioni che i CSV realizzano non si presta ad essere pienamente rappresentato attraverso pochi indicatori e, ancor meno, per via di mere rappresentazioni quantitative riferite soprattutto a risorse finanziarie e “output” realizzati [13]. Naturalmente può anche accadere che i CSV non trasmettono con l’adeguata diligenza e buona fede dati e relazioni sull’attività svolta, ma questo è un ulteriore problema che conviene tenere separato.
A ben vedere nei rapporti tra CSV e CoGe ha potenzialità di esprimersi sia l’asimmetria informativa ex-ante che quella ex-post e ciò può riguardare sia il singolo periodo (l’anno) di riferimento (e in particolare il momento dell’istituzione dei CSV), sia l’intero processo nel suo complesso, a partire dall’impiantarsi dei CSV. Prendiamo in esame il singolo anno, il singolo piano annuale di attività che il CSV trasmette al CoGe per ricevere il finanziamento dal fondo speciale per il volontariato. Il CoGe non dispone di tutte le informazioni sullo stato del volontariato dell’area e sui suoi bisogni, non conosce il potenziale delle ODV, né ha una informazione completa su quantità e qualità delle risorse umane e strumentali su cui i CSV possono contare; ma, se vogliamo, la legge stessa concepisce un meccanismo di funzionamento del fondo speciale ispirato a compiti diversi per valorizzare al meglio le informazioni e le risorse a disposizione di fondazioni bancarie, ODV, enti locali e comunità di un territorio e, pertanto, non richiede al CoGe di possedere queste informazioni anche se gli attribuisce compiti che, in qualche modo, presuppongono il possesso di tali informazioni.
Vi è, poi, la questione dell’interrelazione tra le (complesse) funzioni obiettivo dei diversi attori coinvolti in questo processo. Per usare le espressioni (e le tecniche degli economisti), pur senza attribuire loro il valore di strumenti di conoscenza assoluti: come possiamo scrivere la funzione-obiettivo dei CoGe? Quali vincoli esso incontra? E che dire di vincoli e obiettivi dei CSV? La legge, poi, quale obiettivo assegna al fondo speciale per il volontariato, individuando anche una complessa procedura volta a consentire il miglior raggiungimento possibile di esso? Rispondere a queste domande implica non solo considerare ciò che la legge dice (il dover essere dei comportamenti che il legislatore prescrive), ma anche gli interessi coinvolti e il modo nel quale essi indirizzeranno l’azione concreta nel rispetto della legge. E per valutare questo secondo aspetto non si può non esaminare la struttura di governance dei CoGe e dei CSV voluta dalla 266 e dalle successive disposizioni di attuazione emanate dal Governo. Naturalmente al termine della nostra indagine su questo tema, potremmo scoprire che l’obiettivo e il medesimo per CoGe e CSV e coincide con quello che il legislatore ha attribuito al fondo speciale; se così dovesse essere, è evidente che lo spazio delle asimmetrie informative sarebbe ridotto perché le due istituzioni create dal DM 8/10/1997 si comporterebbero (almeno in teoria) come un unico operatore e, quando ciò non accadesse, sarebbe da attribuirsi a frizioni facilmente eliminabili o a comportamenti non corretti delle persone coinvolte. Se, invece, scoprissimo che, almeno in parte, vi è differenza o divergenza nelle funzioni obiettivo, si aprono spazi più ampi per potenziali comportamenti opportunisti rispetto ai quali è più che mai necessaria un’attenta riflessione.
Dunque, proviamo a indagare sulla funzione obiettivo dei CoGe così come emerge dalle norme. Il problema dei CoGe, con linguaggio economico, possiamo scriverlo come:
MAX Z = f (PRCSV, CollCSV, Circesp)Dato il valore del fondo speciale.
Dove PRCSV è la produttività dei CSV, Coll è la collaborazione e Circesp è la circolazione di esperienze (art. 2, comma 6 DM ’97). L’art. 2, comma 6 del DM, infatti, afferma “il comitato mira all’utilizzo ottimale delle risorse disponibili quanto a costi e benefici, alla collaborazione tra i CSV e alla circolazione e qualificazione delle esperienze”.
Per quanto riguarda i CSV, il problema può essere descritto nel modo seguente:
MAX V = h(QL vol organizzato, QN vol organizzato).
Dove QL rappresenta la qualità mentre QN la quantità.
Il vincolo è, in questo caso, rappresentato dalla necessità di rivolgersi al volontariato organizzato e, ovviamente, dalla necessità di rispettare un vincolo di risorse economiche che i CoGe definiscono. L’art. 15 comma 1 della 266 parla, con riferimento ai compiti dei CSV rispetto alle ODV, di “funzione di sostenerne e qualificarne l’attività” e il DM (art. 4) afferma che “i CSV hanno lo scopo di sostenere e qualificare l’attività del volontariato. A tal fine erogano le loro prestazioni sotto forma di servizi a favore delle ODV iscritte e non iscritte ai registri regionali”.
Quanto alle finalità, e quindi alla funzione-obiettivo del fondo speciale a leggere le norme, sembra vi sia una sostanziale corrispondenza con quelle dei CSV. Ciò si deduce dalla lettera del citato art. 15 comma 1 della 266; naturalmente, è bene notare, il Fondo speciale ha un riferimento territoriale di tipo regionale mentre i CSV sono operativi su base infra regionale, spesso provinciale. Ciò introduce un ulteriore elemento di potenziale differenza tra la sommatoria delle funzioni obiettivo dei singoli CSV e quella dei Fondi speciali.
Prendiamo ora in esame le questioni relative alle strutture di governance dei due organismi. E’ evidente che mentre a caratterizzare la funzione obiettivo del CoGe c’è il peso rilevante (ma, si badi bene, non assoluto) che le fondazioni di origine bancaria hanno nei CoGe, a caratterizzare quella dei CSV c’è il peso delle ODV che hanno dato vita all’associazione che gestisce il singolo centro. Vi sarà dunque una tendenza dei CoGe a dare peso all’interpretazione che le fondazioni bancarie danno delle modalità con le quali le risorse economiche possano e debbano contribuire dell’obiettivo della qualificazione e del sostegno delle attività di volontariato, mentre sarà la visione dei bisogni del volontariato che è propria delle ODV che hanno dato vita al CSV a condizionare gli obiettivi degli stessi CSV. Niente di male: si tratta però di uno spazio per una divergenza di obiettivi, o per un loro conflitto, che, voluta dal legislatore come momento di sana dialettica tra corpi sociali, crea, tuttavia l’humus per potenziali comportamenti opportunistici, o, anche, per eventuali collusioni improprie tra le due istituzioni. Potenziali, non significa attuali, reali, ma indica, appunto, una possibilità; di qui l’importanza di “regole” che possano evitare sia l’ampliarsi di questo potenziale opportunismo [14], sia rendere più costosa la trasformazione di esso in attuale, per usare ancora le categorie aristoteliche di potenza e atto.
2.2 Le azioni del Coge contro l’asimmetria informativa.
Il CoGe, muovendosi in questo quadro normativo ed istituzionale deve, dunque, innanzitutto disegnare schemi contrattuali incentivanti comportamenti corretti e cooperativi dei CSV per risolvere il problema del cd. moral hazard. Si tratta, a riguardo, di disegnare un sistema di premi e punizioni che, per usare la terminologia della teoria dei giochi, aumenti il payoff associato al comportamento cooperativo, al comportamento corretto, e/o riduca il payoff connesso al comportamento opportunistico, così da rendere il primo più conveniente.
Dare la carota, i premi, significa ricorrere ad un sistema di incentivi contingenti ai risultati che producano autonomamente dei comportamenti corretti da parte degli agenti; ottenendo, in tal modo, un maggior allineamento degli interessi dell’agente a quelli del principale. Val la pena osservare a tal proposito che un altro elemento importante delle relazioni proprie del rapporto di agenzia è l’orizzonte temporale di riferimento. Quando il rapporto dura nel tempo e si ripete il gioco della delega, come nel caso della relazione tra il CoGe e i CSV (il monitoraggio dell’azione dei CSV da parte del CoGe è, infatti, continuo e la decisione sul finanziamento delle attività dei CSV è ripetuta una volta all’anno), la letteratura ha messo in evidenza che il principale dispone di strumenti più efficaci per incentivare scelte congruenti degli agenti (Radner, 1985; Holmstrom e Milgrom, 1987).
L’estensione di un rapporto di agenzia ad un orizzonte multiperiodale, infatti, ha l’effetto di rendere lo scorrere del tempo un elemento prezioso per costruire una struttura di incentivi migliore.
Dare il bastone, punire, significa, invece, aumentare la disutilità attesa della sanzione. Partendo dall’idea che la disutilità della sanzione è:
D = Pr * Sanz.
Dove D è la disutilità della sanzione, Pr è la probabilità che il comportamento opportunistico venga scoperto e Sanz è la sanzione, è evidente che per aumentare la disutilità della sanzione, si può innanzitutto aumentare la probabilità di scoprire comportamenti opportunistici, quindi disonesti, predisponendo un efficace sistema di controllo della performance (Williamson, 1973; Grandori, 1995). La nomina di un membro degli organi deliberativi e degli organi di controllo interni ai CSV (forma di controllo in itinere prevista dalle norme attuative dell’art. 15 della l. 266/91), attraverso i quali il Coge effettua delle verifiche sull'operato dei CSV, rientra in questa logica, anche se non esaurisce le possibilità aperte. Per accrescere l’efficacia di premi e punizione è infatti evidente che bisogna procedere a migliorare continuamente gli strumenti di monitoraggio, perfezionando gli indicatori di output e mettendo a punto procedure adeguate.
Da questo punto di vista, la via maestra per ridurre gli effetti negativi delle asimmetrie informative tra Coge e CSV è, a nostro parere, quella di affiancare controlli ben definiti sulle procedure di spesa e sull’utilizzo delle risorse economiche, con monitoraggio condiviso sugli output prodotti e sugli outcome realizzati; ciò significa innanzitutto costruzione condivisa di indicatori.
A questo proposito sembra utile stimolare un’attività di signalling (la redazione del bilancio sociale, oggetto del successivo paragrafo) ad opera della parte più informata, i CSV, che, comunicando ai Coge informazioni rilevanti per il controllo e il monitoraggio, spingano essi stessi nella direzione di un controllo che sia accompagnamento all’efficienza e all’efficacia sociale degli interventi. In altre parole, occorre centrare l’attività di monitoraggio maggiormente sulla “performance sociale” dei CSV, piuttosto, che al rispetto del vincolo di equilibrio economico-finanziario della gestione.
3. Il bilancio sociale per valutare il ruolo sociale dei CSV
La proposta di adottare strumenti di rendicontazione sociale parte dall’idea che il non avere scopo di lucro e il perseguire finalità di solidarietà sociale non conduce automaticamente ad essere socialmente responsabili. Occorre, pertanto, far sì che il mondo del volontariato e, nello specifico, i CSV, mostrino in modo “trasparente”, la loro capacità di gestire, in maniera efficace oltre che efficiente, le risorse a disposizione per il perseguimento di fini “sociali”. In altri termini, la particolare natura non lucrativa che caratterizza l’operato delle organizzazioni in esame non le esime dalla necessità di una tracciabilità del loro agire che valga a garantire il mantenimento delle caratteristiche originarie (Musella, 2007).
Occorre, infatti, tener presente che i CSV sono organizzazioni multistakeholer che gestiscono importanti risorse economiche per lo più derivanti da dettami legislativi e non, almeno in maniera diretta, dalla loro capacità operativa; per queste strutture è, dunque, necessario lo sviluppo di un sistema di accounting che preveda, da una parte, indicatori contabili (“finanziari”, “patrimoniali” e di “equilibrio economico”), i quali provengono, come è noto, dalla rielaborazione di dati rilevati contabilmente dai CSV; dall’altra, indicatori sociali o extra-contabili che provengono, all’opposto, dalla rilevazione e dalla rielaborazione di dati non rilevati dal sistema di rendicontazione finanziaria ed economico-patrimoniale dei CSV, piuttosto, dal sistema di rendicontazione sociale, pertanto, essi forniscono informazioni aggiuntive su aspetti non contemplati dalla contabilità tradizionale. Il ricorso a queste tipologie di indicatori risulta di fondamentale importanza per valutare i risultati e gli effetti complessivi della gestione dei CSV, in quanto finalizzati ad evidenziare il raggiungimento degli obiettivi formalizzati nei loro statuti e definiti nei loro programmi in linea con il dettato della legge 266/91 e dei decreti attuativi.
E’, dunque, necessario avviare una riflessione sulla necessità di sviluppare un approccio rendicontativo e, allo stesso tempo valutativo, dei CSV maggiormente complesso in cui le misurazioni quantitative siano non fini a se stesse ma da supporto al processo di attribuzione di valore a quanto realizzato. Orientare il processo di rendicontazione su queste direttrici fornisce il presupposto per mettere in connessione i diversi soggetti interessati alla massimizzazione del valore sociale prodotto.
Pertanto, il sistema di reporting più idoneo, per far sì che i CoGe possano verificare il raggiungimento delle finalità istituzionali da parte dei CSV, sembra essere il bilancio socio-economico, in quanto il documento di bilancio a cui ciascun CSV deve tendere, non può avere la sola funzione di descrizione razionale delle risorse economiche e materiali utilizzate e di dimostrazione del risultato economico conseguito. Il bilancio socio-economico fornisce, in maniera congiunta, sia le informazioni contenute nel bilancio d’esercizio, sia quelle derivanti dal bilancio sociale [15] e consente, pertanto, ai CSV di comunicare in maniera trasparente e completa agli stakeholder di riferimento (in primis ai CoGe) le loro strategie, i loro obiettivi e le modalità con le quali vengono perseguiti.
Il bilancio d’esercizio risulta particolarmente idoneo ad un’analisi dell’utilizzo delle risorse a disposizione dei CSV mediante la costruzione di appositi indicatori di efficacia/efficienza. Il “bilancio sociale”, come è noto, è uno strumento di accountability (Panozzo, 2008), ovvero di rendicontazione delle responsabilità, dei comportamenti e dei risultati sociali, ambientali ed economici delle attività svolte da un’organizzazione (Rusconi, 1988; 2000; Hinna, 2002; 2005).
La redazione del documento in esame altro non è che una costruzione partecipata di un sistema di riferimenti che permette la gestione e la comunicazione, rispetto agli stakeholder individuati come strategici, degli effetti socioeconomici che non possono essere espressi nel bilancio di esercizio o tradizionale. Pertanto, le informazioni contenute nel bilancio sociale sono diverse ed aggiuntive rispetto a quelle riportate nel bilancio ordinario: esse non riguardano tanto la produzione degli utili, piuttosto le “modalità” con cui si sono realizzati i risultati economici e gli effetti sociali ed ambientali connessi. In altri termini, si tratta di un documento che consente a chi lo adotta di misurare e di comunicare le performance sociali (le best practice). L’implementazione di un tale sistema di “rendicontazione”, non può, dunque, che comportare un incremento del dialogo tra i CSV e gli organi preposti al loro controllo.
Più nel dettaglio, vi è un rinvio esplicito al “bilancio sociale”, in quanto ritenuto una possibile “strategie di azione” a cui i Coge possono far ricorso per la valutazione dei CSV, nelle “Linee di orientamento in materia di valutazione delle attività dei Centri di Servizio”. In particolare, in quest’ultime si legge: “Chiedere ai CSV uno sforzo nel senso dell’adozione di forme di bilancio sociale complete ed esaurienti, anche per diffondere da un punto di vista culturale il valore dell’impatto sociale delle attività che si svolgono”. E ancora “Chiedere agli organi di controllo che in maniera puntuale e completa certifichino le informazioni ed i dati acquisiti soprattutto con i bilanci sociali” (Manuale operativo per i Comitati di Gestione, 2004).
Tuttavia, è anche vero che i numerosi vantaggi (rafforzamento dell’immagine e della reputazione; aumento della capacità di attrarre e di mantenere lavoratori motivati; maggiore accesso al credito e il minor costo del denaro e in più, per i CSV, facilitazione dei rapporti con il CoGe) connessi ad una rendicontazione sociale attenta e dettagliata, dovrebbero sollecitare il mondo del volontariato ad intraprendere di “propria iniziativa” un percorso di valorizzazione e di diffusione del bilancio sociale, strumento verso cui si registra, all’opposto, da parte dei CSV, così come del terzo settore in generale, una certa reticenza, probabilmente per carenza di risorse, sia di natura “organizzativa” che “economica”.
La nostra convinzione è che la rendicontazione sociale rappresenta non un vincolo, bensì l’opportunità di attuare un comportamento “socialmente responsabile”, di orientare la propria attività in modo tale che i risultati perseguiti siano coerenti con i valori condivisi del contesto di riferimento, e ciò attraverso comportamenti volti a soddisfare le aspettative dei differenti interlocutori; in breve, di accrescere la legittimazione e il consenso da parte di tutti i soggetti che possono influenzare il raggiungimento dei loro obiettivi (rilevanza interna) o che sono influenzati dal loro operato (rilevanza esterna).
Più nello specifico, la struttura di bilancio sociale da adottare da ciascun CSV, uniformandosi ai principi e agli schemi proposti nelle “Raccomandazioni n. 9” in materia approvate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, Commissione Aziende non profit, dovrebbe essere costituita da:
- Stato Patrimoniale, documento con il quale si fornisce una rappresentazione fotografica del patrimonio a disposizione dell'ente per il conseguimento delle finalità istituzionali.
- Rendiconto gestionale, espresso attraverso un documento economico ed un documento finanziario, nel quale classificare proventi ed oneri per destinazione e per aree gestionali [16].
- Relazione sulla gestione o “conto morale” che assume un ruolo centrale nell'intero bilancio sociale, poiché permette di effettuare una completa analisi delle attività sviluppate dai CSV, così come dei benefici sociali apportati, ecc., in quanto in essa vengono riportate sia le voci esposte nel bilancio d’esercizio (aspetti quantitativi), sia tutte quelle informazioni che non sono suscettibili di valutazione economica (aspetti qualitativi).
- Allegati Esplicativi, le c.d. schede di progetto [17] e/o di attività, nella quale riportare, in maniera sintetica ma esaustiva, la descrizione dell’attività, l’organizzazione dello stesso, la tipologia dei costi sostenuti, ecc.; i verbali di approvazione degli organi preposti, ecc.
- Relazione dell’Organo di controllo, quale essenziale certificazione dei dati e delle informazioni acquisite con i bilanci sociali trasmessi.
La stesura del bilancio sociale consente, dunque, ai CSV di “render conto” ai propri interlocutori delle azioni svolte, al fine di permettere loro di valutarne l’operato e la coerenza delle azioni rispetto alle loro istanze. In tal modo si rende possibile ai soggetti esterni alle organizzazioni la verifica del patto fiduciario da essi instaurato con l’organizzazione stessa.
Se, dunque, l’adozione del bilancio sociale può rappresentare una via molto utile per facilitare, per dir così, il monitoraggio delle fondazioni, attraverso i CoGe, sulle azioni dei CSV, è importante sottolineare che deve trattarsi di uno strumento che andrebbe vissuto e utilizzato dai CSV stessi in modo avanzato e facendo proprie le acquisizioni teorico operative che vanno caratterizzando sempre più il settore dei servizi alla persona e alla comunità e che rendono la valutazione una procedura che aiuta le stesse unità di offerta a migliorare le proprie performance.
Bibliografia
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Il lavoro rappresenta un estratto della ampia ricerca svolta per il Coge della Campania di prossima pubblicazione. Gli autori ringraziano il prof. Daniele Marrama, la prof.ssa Marina Albanese e la dott.ssa Maria Vittoria Musella per gli utili suggerimenti.
[1] Naturalmente esistono molti punti dell’attuale normativa che potrebbero essere migliorati. Qui vogliamo solo sostenere che siamo di fronte ad un meccanismo di promozione della sussidiarietà orizzontale interessante da approfondire in un’ottica di sistema di regole che favoriscono l’espressione della società civile organizzata.
- le fondazioni bancarie, che devono redigere un documento più circoscritto del documento in esame, ovvero il “bilancio di missione” ed inserirlo in una specifica sezione della relazione al bilancio (D. lgs. 153/99);
- le cooperative sociali, per le quali in alcune regioni sono stati previsti principi, elementi informativi e i criteri minimi di redazione del bilancio sociale;
- le imprese sociali e relative strutture di gruppo (art. 10, comma 2, del D. Lgs n. 155, 24 marzo 2006).