Perché occorre discutere ancora di sussidiarietà

Autore: 

Alessandro Montebugnoli

Dedico questo intervento a spiegare perché mi sembra importante che l’argomento della sussidiarietà sia affrontato – e continui a essere affrontato, anche in futuro – come stiamo facendo oggi: raccogliendo ‘casi’ sui quali ragionare; e raccogliendoli, anche, per mezzo di procedure ‘concorsuali’, che sollecitino i cittadini a esprimere capacità ideative (progettuali, propositive) oltreché realizzative (che in ogni caso, beninteso, non devono mancare). In estrema sintesi, la ragione sta nel fatto che la sussidiarietà non è una ‘ricetta’, bensì uno ‘schema’. Attribuisco a questa affermazione un significato piuttosto impegnativo, e anche un po’ scabroso, che cerco di chiarire.

Come sappiamo, giusto per fare mente locale, il principio di sussidiarietà verte su due problemi: quello del rapporto tra i diversi livelli dei poteri pubblici e quello del rapporto tra questi e i ‘cittadini’ (ovvero la società civile, in quanto luogo di iniziative autonome, di responsabilità assunte al di fuori delle ‘obbligazioni perfette’ imposte dai poteri pubblici). Ora, la mia tesi (la mia impressione, il mio sospetto) è che il principio di sussidiarietà consente di porre questi due problemi, di enunciarli (il che, ovviamente, non è cosa trascurabile), ma non consente di risolverli (non contiene la ‘chiave’ per risolverli). Mi rendo conto che si tratta di un’affermazione piuttosto pesante; e anche del fatto che mi espongo a reazioni un po’ indignate. Ma come sarebbe a dirsi? Il principio contiene, anzi, consiste di un’indicazione chiarissima: le competenze, le responsabilità, i ‘poteri’ devono trovare collocazione quanto più possibile ‘vicino’ ai cittadini – tanto meglio, quindi, se presso i cittadini stessi. Sicché, tra l’altro, si vede che i due problemi, in realtà, sono soltanto uno, a vari gradi di manifestazione.

Rispondo che l’indicazione ha tutta la chiarezza che può desiderarsi, ma è talmente generica da non costituire una ‘guida’ per le scelte che di volta siamo chiamati a compiere – forse è così chiara, e certo, condivisibile, proprio perché è così generica. Data una questione, una materia, una situazione-problema, come si dice in sociologia, quanto conviene collocarla (vale a dire: collocare la sua gestione) vicino ai cittadini? Dire ‘il più possibile’, in realtà, lascia la cosa del tutto indeterminata, perché, se questa è la risposta, ripeto la domanda: quanto è possibile (ovviamente sotto un vincolo di appropriatezza o anche soltanto di ragionevolezza, che curiosamente, per altro, resta implicito)? Su questo punto, evidentemente decisivo, continuare a dire ‘il più possibile’ non ci fa avanzare nemmeno di un centimetro – non significa niente di ‘operabile’. ‘Il più possibile’ può essere moltissimo o pochissimo, o così così, o qualsiasi altra determinazione tra un massimo (costituito dalla coincidenza con ‘i cittadini stessi’) e un minimo (costituito dal livello più lontano che esiste all’interno di un certo ordinamento).

(Per non complicare il discorso, per non perdere di vista il punto di vista principale, evito di commentare le espressioni ‘vicino’ e ‘lontano’, che in effetti sono metafore un po’ bastarde. Le metafore mi piacciono, e anzi sono convinto che molte cose, forse le più importanti, non possiamo dirle in nessun altro modo. Però bisogna controllarle. E allora osserverei che più vicino o più lontano, in realtà, significano più piccolo o più grande – l’Unione europea è più grande degli stati membri, questi delle regioni, queste delle province, queste dei comuni, ecc. E aggiungerei che più piccolo e più grande non hanno esattamente lo stesso ‘sapore’ di più vicino e più lontano. Questo, certamente, lungo l’asse verticale. Ma anche quello orizzontale si presta a considerazioni dello stesso genere, per quanto più complesse.)

Dunque, il principio di sussidiarietà sembra affetto da una certa ‘vuotezza’. Non è un’idea mia. O meglio, è un’idea mia, che sostengo da molti anni, ma della quale, recentemente, ho trovato riscontro in alcune riflessioni dottrinali circa l’applicazione del principio in sede europea, con riferimento alla sua accezione verticale (anzi ‘verticalissima’, dato che si tratta del rapporto tra l’Unione e gli Stati membri). Così, per esempio, scrive Antonio Estella: “Sotto il profilo funzionale il principio appare privo di ogni chiaro contenuto legale, il che ne rende problematica la realizzazione”, tanto che “la Corte di giustizia europea ha mostrato di non aver intenzione di mettere a repentaglio la propria legittimità applicandolo” [1]. Certo, oggi noi non ci occupiamo del trattato di Maastricht, del protocollo di Amsterdam o delle sentenze della Corte di giustizia europea, bensì del principio di sussidiarietà come enunciato nell’art. 118, ultimo comma, della nostra carta costituzionale. Con riferimento a quest’ultimo, però, il problema si ripresenta esattamente negli stessi termini, o meglio, nella forma delle domande che seguono, volutamente elementari, ingenue. Perché è bene che i cittadini si occupino dell’interesse generale in quanto tali, cioè in prima persona, senza ‘passare’ per la mediazione dei poteri pubblici (ovvero implicandola soltanto come un favor, come un sostegno, come un ‘sussidio’)? E di nuovo, quanto è opportuno fare affidamento sulle iniziative che essi, autonomamente, possono intraprendere? In tutto e per tutto? Nessuno, credo, vorrà rispondere di sì. Ma allora? Qual è l’‘intervallo di confidenza’ del principio, se così mi posso esprimere? Quando e come i cittadini possono ‘riscattare le pretese di validità’ di un’azione autonoma, volontaria, libera da vincoli autoritativi?

Ecco, è proprio per rispondere a queste domande che mi sembra importante avere a disposizione un abbondante materiale empirico, sul quale ragionare. Sul quale, ripeto, ragionare, perché sono lontanissimo dal ritenere che i fatti parlino da soli. Tuttavia, direi, accendono la nostra intelligenza, ci ‘costringono’ a dare spiegazioni – platonicamente, risvegliano le idee che abbiamo nella mente. Sicché, a ben vedere, non possiamo farne a meno proprio da un punto di vista ‘teoretico’, quando vogliamo venire in chiaro con noi stessi, con quello che pensiamo.

Per illustrare l’argomento, consentitemi di citare un’esperienza personale. Tempo fa, ho ideato e diretto un ‘tentativo controllato’ di sussidiarietà orizzontale, realizzato su scala piuttosto ampia, vale a dire il progetto Idee in comune del Comune di Roma. Si trattava, appunto, di un concorso, all’esito della quale si dovevano selezionare 25 progetti da premiare (con il sostegno alla messa in opera). Quindi bisognava definire i criteri di valutazione, e io (con i miei collaboratori) ero molto impegnato a definire – ex ante – parametri, pesi, punteggi e scale, anche perché, come capite, la scelta doveva essere ‘difendibile’ ai termini delle norme sul procedimento amministrativo (dunque imparziale, motivata, trasparente, ecc). E naturalmente c’era una giuria, indipendente dalla direzione del progetto, nei confronti della quale, per le stesse ragioni, facevo valere la necessità di questa impostazione, che del resto, a me, sembrava ovvia. Tra i membri, però, ce n’era uno – una personalità piuttosto nota – insofferente della disciplina che cercavo di imporre al suo lavoro. L’atteggiamento che proponeva era di questo tipo: ma insomma, diciamoci schiettamente quali casi ‘ci piacciono di più’, perché a vivisezionarli in base a parametri e punteggi, a costringerli nella ‘griglia’ dei pesi e delle scale, finiamo per ‘appiattirli’, per mortificarne tutta la freschezza. La mia prima reazione fu – ecco, la solita superficialità del giornalista (tale era il membro in questione, gli altri due essendo un sociologo e un economista). A un certo punto, però, mi sono accorto che anche io, in realtà, procedevo un po’ nello stesso modo, soltanto che usavo l’impressione generata da un caso ‘bello’ per domandarmi – perché mi piace, che cosa c’è, in questa proposta, che me la rende tanto interessante? Così, alla fine, tutti insieme, ci siamo resi conto che i ‘casi’, proprio con la loro particolarità e con la loro immediatezza, facevano ‘affiorare’ i nostri criteri di valutazione, in un certo senso ce li ‘rivelavano’, e però ci consentivano di enuclearli, delucidarli, discuterli (su questo punto, come capite, non ho mollato).

Ecco, al di là del problema di premiare un’esperienza oppure un’altra, a me sembra che un esercizio di questo genere possa riguardare, produttivamente, tutto il materiale empirico che abbiamo a disposizione. Se un certo caso ci sembra convincente, oppure il contrario, e ci interroghiamo sui motivi delle impressioni che ne ricaviamo, siamo sulla buona strada, credo, per scoprire le categorie di cui c’è bisogno per organizzare un discorso più ‘sostantivo’, se mi faccio capire, sul principio di sussidiarietà (qui orizzontale).

Tutto ciò, mi rendo conto, è molto metodologico – e la metodologia, come diceva un mio professore di filosofia, è la scienza dei nullatenenti. Allora, in pochissime battute, non voglio sottrarmi allo sforzo di aggiungere qualcosa nel merito del problema che ho sollevato (con ovvie scuse per la sommarietà di quel che segue). Ancora in termini generali, direi così: è bene che i cittadini si occupino in prima persona dell’interesse generale perché accade che essi controllino risorse peculiari, grazie alle quali godono di certi ‘vantaggi comparati’ rispetto alle istituzioni pubbliche. Di queste risorse e di questi vantaggi, riflettendo sui casi che abbiamo a disposizione (quelli di oggi, quelli del sito Labsus, quelli di Idee in comune, quelli di un analogo progetto recentemente realizzato a Piacenza, ecc.), credo che si possa fornire qualcosa di simile a una tassonomia.

Intanto, per esempio, si può distinguere tra risorse/vantaggi di tipo cognitivo e risorse/vantaggi di tipo materiale. I primi sono legati a quella che in economia si chiama ‘conoscenza dispersa’, che cioè è indissolubilmente legata alle circostanze di tempo e luogo nelle quali sorgono i problemi e le opportunità, e che proprio in quanto tale non può essere concentrata presso un unico soggetto, sicché neppure la più gagliarda delle amministrazioni può interamente riprodurla al proprio interno. E l’argomento, volendo, può essere irrobustito osservando che la conoscenza dispersa, spesso, si dà anche come conoscenza ‘tacita’, tale cioè che non può essere trasferita nella forma di ‘elenchi di istruzioni’, e però può essere sfruttata soltanto se chi la possiede ‘partecipa all’azione’. Quanto ai vantaggi di tipo materiale, almeno in parte si tratta di ragionare sul fatto che i cittadini controllano risorse (soprattutto risorse ‘reali’ piuttosto che monetarie, fatte di tempo, di energie, anche di ‘cose’) che sono già ‘in situazione’, che ‘stanno già‘lì’, all’interno dei contesti nei quali sorgono i problemi da risolvere o le opportunità da cogliere, e che presentano anche elevati gradi di ‘specificità’. Sicché possono godere, i cittadini, di rilevanti economie di posizione, di varietà e di scopo, e più in generale controllano fattori di efficienza e di efficacia che di nuovo risultano ‘non-riproducibili’, e però sono importanti, spostano in avanti la frontiera delle possibilità.

Poi si può cercare di uscire da un modo di ragionare troppo debitore della teoria economica, per inquadrare circostanze di tipo ‘sociologico’. Per esempio, forse, qui si può spendere la nozione di ‘mondi vitali’, ovvero, per esteso, di ‘mondi della vita quotidiana’, con tutto il carico dei problemi di significato (o di ‘senso’) dei quali è portatrice. Alla luce di quest’ultima, davvero esistono alcune cose che possono essere fatte soltanto dai cittadini, singoli o associati. Per esempio, se interpretiamo l’‘interesse generale’ come tenuta o rigenerazione dei tessuti sociali, comprese le ‘relazioni primarie’, ovvero come generazione di nuovi tessuti sociali (si pensi ai problemi legati all’immigrazione), abbastanza chiaramente siamo in presenza di un obiettivo che ‘per definizione’ non può essere perseguito altrimenti che affidandolo all’agire dei ‘diretti interessati’.

Per concludere, un po’ alla rinfusa:

  1. Inutile insistere su quanto tutto ciò sia parziale e provvisorio. Lo scopo è soltanto quello di suggerire un modo di ragionare, che mi sembra meriti attenzione.
  2. Alla fine il risultato sarà ancora uno schema, com’è giusto che sia, però più articolato di quello attualmente disponibile, che lo è pochissimo, con il risultato che tutto il ‘discorso’ della sussidiarietà soffre di una grave mancanza di ‘struttura’.
  3. Incidentalmente, prima, ho parlato di una ‘scoperta’ delle categorie che ci servono: ribadisco il punto e aggiungo che proprio per questo sono portato ad attribuire tanta importanza all’attivazione di procedure di tipo ‘concorsuale’, da considerare soprattutto nelle loro valenze esplorative (più che competitive).
  4. In ogni caso, qualsiasi ragione riusciamo a individuare, essa sarà sempre, contemporaneamente, un argomento e un limite, un motivo di validità e una ‘misura’ di validità, che non converrà sottoporre a troppe forzature. Individuerà, appunto, un ‘intervallo di confidenza’, una condizione. Quindi, per esempio, “favorire” quando e nella misura in cui i cittadini possiedono informazioni pertinenti che altrimenti andrebbero perdute, e via dicendo, lungo l’elenco dei possibili vantaggi ai quali ho fatto cenno e di tutti quelli che una riflessione può matura potrà far emergere. In realtà, come per contraccolpo, il fatto stesso di ragionare sulla peculiarità delle risorse possedute dai cittadini implica un ragionamento sulle risorse che soltanto le istituzioni pubbliche, invece, possono attivare, organizzare, rendere disponibili. Anzi, sono convinto che la questione cruciale verta proprio sulla duplicità, o meglio sulla varietà, dei fattori che devono convergere nella soluzione di questo o quel problema (una duplicità/varietà, intendo, di genere, di ‘statuto’, di ‘natura’, se così mi posso esprimere) – secondo un rapporto, fatemi aggiungere, più stretto, più ‘intrecciato’, di quanto non suggerisca il “favorisce” del testo costituzionale.
  5. Infine mi preme dire che tutto resterà sempre aperto, controvertibile – ‘difficile’, nel senso in cui Bruno Dente ci ha insegnato a usare il termine. Credo che lo schema della sussidiarietà possa essere ‘implementato’ nel modo che ho cercato di comunicare: e credo che questo sarebbe un passo avanti assai importante. Tuttavia – riprendo il punto (b) – uno schema resta tale per quanto sia ampio, articolato e ‘prensile’. Quand’anche avessimo raggiunto un accordo circa la configurazione, l’utilizzo sarebbe ancora esposto a differenze di valutazione circa il peso di questo o quel vantaggio (giudizi di valore) e circa il grado della sua presenza (giudizi di fatto). Su entrambi questi punti potremo argomentare, e magari convincere un interlocutore di diverso avviso, sicché non sto sostenendo un relativismo a buon mercato; ma non potremo farlo appellandoci al puro e semplice principio di sussidiarietà, per quanto articolato, bensì giustificando la nostra interpretazione di questa o quella fattispecie, nel merito delle questioni all’ordine del giorno. At the end of the day, il principio di sussidiarietà ci dice che dobbiamo tener presenti ragioni di diverso genere e ci aiuta a ‘nominarle’: quanto farle valere e come ‘comporle’ è un altro paio di maniche.

 

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[1] A. Estella, The EU Principle of Subsidiariety and Its Critique, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 177 e 178.

 

 
Convegno Forum PA
Roma - 11.5.2011

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