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1. Premessa
La lunga transizione italiana e la crisi della "Seconda Repubblica". Alla base della crisi italiana: crisi dello "stato sociale", "deregulation" neoliberista, peculiarità nazionali. Sussidiarietà orizzontale e beni comuni per rinnovare lo Stato. Il possibile ruolo del TS.
La lunga transizione del "sistema Italia" e del suo sistema politico e istituzionale sembra giunta a un nuovo capitolo segnalato dalla crisi della maggioranza di centro/destra[1] e del terzo governo Berlusconi, che hanno più al fondo la crisi del "berlusconismo" e della "seconda repubblica". Dopo 17 anni dalla "discesa in campo" del Cavaliere delle varie promesse avanzate a più riprese non c'è traccia: i posti di lavoro sono diminuiti, la crescita economica si è arrestata, l'incertezza e la precarietà è aumentata, le istituzioni sono sottoposte ad una tensione continua[2], ma, in fondo, il prevalere nello scenario politico italiano del principale imprenditore profit delle comunicazioni e della TV in particolare, emerso dopo la fine del monopolio pubblico, è coerente con l'involuzione che ha conosciuto sia il sistema politico che economico italiano.
Tutto ciò fa seguito all'indebolimento e al discredito che ha colpito la dimensione pubblica e la politica, accusate di burocratismo, inefficienza e corruzione, ma non è il prevalere dell'interesse privato, del proprio particulare, che ci può portare fuori dalla crisi, occorre piuttosto un nuovo spirito pubblico.
Il discredito che ha colpito la politica e la dimensione pubblica precede però l'ascesa di Berlusconi e nello scritto che segue si sostiene che ciò è stato determinato sia da ragioni di politica ed economia internazionale, che hanno spinto verso la deregulation sul piano interno e internazionale, sia dai limiti nella capacità di intervento raggiunti già nel corso degli anni '70 dallo stato sociale. Se sui processi di carattere internazionale relativi al funzionamento dell'economia mondo[3] è certamente non facile per i singoli cittadini intervenire, sul funzionamento del nostro Stato e sulla realtà nazionale l'intervento è certamente più alla nostra portata ed è doveroso. Qui si sostiene che il Terzo Settore (TS da qui in avanti) può avere in questo quadro una funzione specifica di innovazione, sia sul piano del rinnovamento dello Stato come dell'economia. Quanto allo Stato perché la cittadinanza attiva, nel rinnovare il rapporto cittadini/istituzioni, dà efficacia all'azione pubblica, gli dà un fondamento sociale più allargato, gli permette di recuperare autorevolezza e credibilità nel perseguimento degli interessi generali, nella tutela dei beni comuni, attraverso quel rovesciamento di ottica nel processo di rinnovamento dato dalla sussidiarietà orizzontale. Quanto all'economia, perché le organizzazioni di volontariato, l'insieme del nonprofit, a differenza di quelle profit le cui attività e i cui prodotti sono strumentali alla produzione di profitto, hanno proprio nei fini istituzionali previsti dai loro statuti (fini di carattere sociale, culturale, di tutela, di cura, di promozione sociale, ecc.) il loro scopo e nelle pratiche democratiche interne ed esterne previste dalle leggi la loro modalità di azione. Quindi si tratta di attività potenzialmente attente alla responsabilità verso la società e la natura che ci circonda. Nell'un campo e nell'altro il TS può svolgere un'azione d'avanguardia, a condizione che ne prenda coscienza e sia fedele alla sua missione.
Lo scritto che segue nasce dall'esigenza di tracciare un'ipotesi di lavoro per la rivista, sollevando una discussione tra di noi che ci permetta di delineare le piste di lavoro per i prossimi numeri.
A questo scopo qui si formula un'ipotesi interpretativa dello scenario che ci troviamo di fronte e quindi anche dei compiti che potrebbero spettare al TS nel medio e lungo periodo in questo contesto, a partire da una discussione pubblica e approfondita, necessaria se vogliamo che il TS possa svolgere un ruolo positivo e propositivo.
2. La "Seconda Repubblica"
La crisi dei partiti democratici di massa. Il vuoto riempito dal "partito azienda" delle comunicazioni. La democrazia bipolare dell'alternanza ha fallito nel ricostruire uno spirito pubblico. Il fallimento della "Seconda Repubblica"
La democrazia dell'alternanza a quasi vent'anni[4] della stagione dei referendum sulle leggi elettorali, che dovevano favorire la nascita di un sistema bipolare, non ha dato buona prova di sé: "tangentopoli", unitamente ai diversi sistemi elettorali maggioritari che abbiamo conosciuto da allora, hanno accentuato la crisi dei partiti democratici di massa[5], che con la loro capacità rappresentativa, culturale e propositiva ci avevano dato la Costituzione e la Repubblica. Il vuoto lasciato da quei soggetti, da quelle associazioni di cittadini non a fini di lucro, è stato in parte colmato dalla più grande azienda profit italiana che agisce nel campo delle comunicazioni, creando un "partito azienda" che funziona con le logiche mercantili delle imprese profit, mentre per gli altri partiti si è ridotta grandemente quella funzione di "intellettuali collettivi" che riusciva a dare identità e prospettive di futuro alla comunità, mentre oggi prevale la loro funzione di macchine elettorali per conquistare voti e comporre liste di candidati, nell'arena elettorale.
Sulle basi della seconda Repubblica, non si è costruito un nuovo spirito pubblico e un nuovo spazio pubblico, che era necessariamente alla base di un rilancio del nostro Paese come "sistema Italia", è andato invece avanti un processo di privatizzazione della sfera pubblica, di cui Berlusconi è fenomeno emblematico.
Il fallimento però non sembra essere solo del "berlusconismo", ma anche della "seconda repubblica",voluta dalla gran parte delle altre forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Nata con l'imperativo di rafforzare la funzione dell'esecutivo non ha per nulla garantito efficacia dell'azione di governo, anzi in Italia siamo passati da una fase di rallentamento dello sviluppo al blocco. Dal settembre 2008 ad oggi si sono persi 7 punti del Pil italiano, un tracollo che fa seguito a un progressivo rallentamento dagli anni '50 ad oggi (tra il 1951/58 la crescita del Pil fu del 5,5% anno, tra il 1958/63 del 6,3%, negli anni '70 del 3,4%, negli anni '80 del 2,5%, negli anni '90 dell'1,4%, negli anni 2000 dello 0,0%[6]).
3. La crisi economica e finanziaria internazionale e l'Italia
La crisi del '29 e gli accordi di Bretton Woods del '44. La nascita dello stato sociale e del welfare state. La fine della regolazione monetaria e finanziaria internazionale. La deregulation neoliberista. La crisi finanziaria ed economica.
La crisi italiana, con le sue peculiarità che affondano nella storia d'Italia, si è avviata e si sta svolgendo in un contesto internazionale di lungo periodo di rallentamento dello sviluppo economico, dalla metà degli anni '70 ad oggi, e di crisi ricorrenti[7] finanziarie ed economiche che hanno coinvolto tutto l'Occidente. Con ripercussioni meno gravi inizialmente nell'area anglosassone e un rallentamento dello sviluppo in Europa continentale, mentre dopo il 2008 la crisi colpisce tutto l'Occidente, sia pur con delle differenziazioni da Stato a Stato, in maniera "generalizzata, profonda e durevole"[8], in una crescente difficoltà dell'intervento pubblico di rilanciare "lo sviluppo".
Una spiegazione della crisi si può ipotizzare se allunghiamo lo sguardo almeno alla fase precedente che va dalla crisi del '29 sino agli anni '70. Dalla crisi del '29 se ne uscì attraverso un intervento diretto e di regolazione dello Stato in economia, sia da parte degli Stati democratici, che autoritari: così fu negli Usa con il New Deal rooseveltiano; così fu in Italia con la nascita dell'IRI[9] e delle leggi che misero le banche sotto lo stretto controllo della Banca d'Italia; ma così fu anche nella Germania hitleriana, come a maggior ragione nell'Unione Sovietica. Non era in discussione se lo Stato dovesse intervenire in economia, ma come, sino a dove si dovesse spingere il suo ruolo e a che fine: per una politica interna a favore del benessere della popolazione o per il riarmo e una politica aggressiva e di dominio verso l'esterno?
Dalla Seconda guerra mondiale uscì vincente il modello di sviluppo finalizzato al benessere dei cittadini, nelle sue due versioni: quella democratico/liberale (negli Usa più liberale e in Europa occidentale più socialdemocratica) e quella del "socialismo reale", che andava dall'Europa dell'Est alla Cina. Lo scontro, a volte anche bellico (Corea, Vietnam, Afganistan), era nel nome della democrazia, del benessere. Tutti gli stati intervennero nell'economia interna regolando e controllando direttamente i settori di base dell'economia, mentre le relazioni monetarie e finanziarie internazionali furono rigidamente regolate dagli accordi di Bretton Woods[10], ai quali inizialmente doveva aderire anche il mondo del "socialismo reale", cosa che poi non avvenne, ma ai quali quest'ultimo comunque si adeguò nel regime degli scambi internazionali.
Bisogna dire che quelle politiche hanno garantito il più elevato livello di sviluppo prima d'allora conosciuto per l'insieme del mondo per trent'anni, dalla metà degli anni '40 alla metà degli anni '70.
Nell'agosto del '71 gli Usa, sotto la pressione delle spese per la guerra e la sconfitta subita in Vietnam, unilateralmente dichiararono l'inconvertibilità dollaro/oro, era la fine del sistema monetario internazionale e dello stesso accordi di Bretton Woods: rimasero in piedi il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, ma con opposte finalità rispetto a prima. Da allora gli Usa, alternando svalutazioni a rivalutazioni del dollaro, che è la moneta internazionale, scaricano svalutando una parte del loro debito (ad es. quello per la guerra del Vietnam e delle successive del Golfo) sui possessori nel mondo di dollari e di titoli in dollari; mentre rivalutando la loro moneta reperiscono attraverso la borsa risorse internazionali per la loro economia (per il deficit pubblico, ma anche per i consumi privati) in un mercato finanziario di capitali che diveniva sempre meno regolato e nel quale circolava un'ingente e in continuo aumento quantità di denaro inflazionato in cerca di remunerazione. Dagli interessi e dalle politiche dello Stato guida, gli Usa, certamente è venuta una delle maggiori spinte a deregolamentare l'economia e a sostituire gli strumenti finanziari pubblici con un sistema finanziario privato divenuto ipertrofico. Tra i primi interventi negli stessi anni '70 ci furono i prestiti ai "paesi in via di sviluppo", non più concessi dal FMI, ma dal sistema finanziario privato internazionale. Ciò causò l'accumulo di debiti ingenti da parte di quegli Stati costretti a remunerare prestiti che erano stati concessi ad interessi di mercato. Oggi la finanza privata la fa da padrona anche per il prestito sul debito pubblico dei paesi sviluppati, con gli annessi episodi speculativi di questi ultimi mesi contro Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, che danno con evidenza il ruolo che la finanza privata ha acquisito nella vita pubblica.
Il ruolo del capitale finanziario, sempre più lanciato in una folle corsa speculativa, in quegli anni è continuamente cresciuto, dal prestito agli Stati ai fondi pensione privati, sostituendosi in vari campi all'intervento pubblico. Inoltre nel corso degli anni '80 e '90, soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna, lo sviluppo economico, molto rallentato in generale in Europa continentale, è stato sostenuto in quei paesi, non grazie, com'era avvenuto tra gli anni '40 e '70, ad una politica fordista[11] di alti salari, ma grazie all'esplodere del debito pubblico, in particolare negli USA, e a un indebitamento privato diffuso. Dopo l'esplosione delle successive bolle speculative l'indebitamento privato determinerà il crollo del 2007/08, aprendo la fase di crisi nella quale ci troviamo. Questa sostanziale omogeneità tra le politiche economiche di Usa e GB e il simile ruolo assegnato al mondo finanziario privato, è anche alla base della stretta relazione in politica estera che, al di là del cambio dei governi, ha caratterizzato il rapporto tra i due paesi in particolare nell'intraprendere assieme la guerra in Irak.
Insomma, una delle principali ragioni che ci ha portato alla crisi attuale, è la perdita di procedure di regolazione e controllo degli scambi monetari e finanziari internazionali e ciò non è avvenuto casualmente, ma ha trovato la sua ragione principale nelle politiche economiche Usa in difesa del proprio ruolo internazionale egemone, in una fase storica in cui questo ruolo andava lentamente e inevitabilmente entrando in crisi dal lato dell'economia reale[12]. Ma la deregulation è stata anche dal punto di vista scientifico e politico sostenuta con una forte e vincente iniziativa culturale che, sulla base della "capacità di autoregolazione del mercato"[13], portò in quegli anni a mettere in soffitta le politiche economiche keynesiane. Nascono così le teorie e le politiche economiche "neoliberiste", applicate in gran parte del mondo grazie all'imposizione svolta da parte di quelle istituzioni internazionali, FMI e BM, che paradossalmente erano nate sulla base di un'impostazione esattamente opposta: è il cosiddetto Washington consensus[14].
Riescono a sottrarsi a quell'impostazione in quegli anni l'area dei paesi dell'Asia del Pacifico, prima il Giappone, poi le quattro Tigri (Corea del sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) e infine soprattutto Cina e India[15]. E' da dire che ciò avviene più facilmente in quell'area del mondo dove cooperazione sociale e senso dello Stato (lo Stato nazionale ha qui una storia più antica che in Europa[16]) sono tradizionalmente molto forti e non è un caso che l'area dei paesi in via si sviluppo di questa parte del mondo ha tenuto ritmi di crescita che le economie che si sono affidate all'autoregolazione del mercato non hanno avuto. In America Latina, le politiche neoliberiste entreranno in crisi in particolare dopo il collasso del sistema economico argentino avvenuto alla fine degli anni '90, mentre negli Stati Uniti e ancor più in Europa l'impostazione neoliberista è ancora adesso dominante. Certo è da dire che l'intervento diretto e la programmazione economica è più facile da parte di quegli Stati, per quanto tradizionali essi siano, trattandosi di Paesi nei quali non si è ancora raggiunto un livello di sviluppo tale da rendere più complesso il rapporto centro/periferia e società civile/istituzioni, rapporto che può essere probabilmente affrontato solo sul piano della sussidiarietà orizzontale e della democrazia economica.
4. La crisi dello stato sociale
Il ruolo di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Il movimento no tax, la rivolta anti-tasse. Il crollo di credibilità dell'intervento pubblico.
Alla crisi del sistema di regolazione economica internazionale, negli stessi anni si aggiunge quella dello stato sociale[17]. Negli anni '70 comincia a manifestarsi la crisi dello stato sociale e della democrazia delegata/rappresentativa, le risposte vincenti furono quelle proposte dalle forze neoconservatrici. Margaret Thatcher è diventata primo ministro nel 1979, dello stesso anno è Proposition 13, il referendum propositivo che in California modificò le leggi fiscali congelando le imposte sugli immobili e che tenne a battesimo il movimento no tax, la rivolta anti-tasse, che ispirerà le politiche di molti governi, non solo di destra, sino ai giorni nostri e di cui si fece interprete allora Ronald Reagan, andato alla Presidenza Usa nel 1981. Lo stato sociale e lo stato del benessere diventeranno spregiativamente sinonimi di stato assistenziale che deprime il merito e assiste gli incapaci e i fannulloni a spese della collettività e di chi paga le tasse. L'intervento dello Stato italiano nel Mezzogiorno, pensato nell'epoca delle politiche keynesiane come lo strumento che permetteva lo sviluppo e il superamento degli squilibri e delle arretratezze, è ora ridotto solo a spreco del danaro pubblico in una spesa assistenziale e clientelare. Lo Stato che prima era visto come la soluzione dei problemi ora diviene il problema dei problemi. Sono la Thatcher e Reagan che inaugurano politicamente con consapevolezza l' "era neoliberista": la finanza deregolata e gonfiata, permettendo di sostituire quest'ultima alla spesa pubblica come stimolo all'economia, rende possibile il taglio delle tasse per i ceti ad alto reddito. Infine dopo il crollo del muro di Berlino dell'89, le politiche neoliberiste e l'esaltazione degli interessi privati senza più freni assume toni apologetici da fine della storia.
Naturalmente un ruolo da protagonisti nell'affermazione delle politiche neoliberiste l'hanno avuto forze politiche di destra, organizzazioni sociali, studiosi espressione degli interessi e della cultura di quel capitalismo[18], a cui la legislazione nata nel corso e dopo la guerra aveva posto seri limiti di responsabilità sociale[19], e infatti negli anni '80 si sono avviate politiche che hanno accentuato, in particolare nei paesi economicamente sviluppati, le ingiustizie e gli squilibri nella distribuzione dei redditi. Del resto non si dà azione sociale senza dei soggetti sociali che la propongano e la guidino, ma l'egemonia culturale di quell'impostazione, così profonda e duratura anche nelle forze politiche eredi di quelle che erano state sostenitrici dello stato sociale (in Europa occidentale i democratici cristiani, i socialisti e i socialdemocratici, i comunisti, ma in Italia parte dei repubblicani e delle stesse forze liberali) non è spiegabile solo con l'iniziativa della destra. Era lo stato sociale che aveva raggiunto i suoi limiti di applicabilità, almeno quello stato sociale, sono le inefficienze e gli sprechi, l'incapacità di reggere tutti i compiti che alle istituzioni pubbliche erano state assegnate negli anni precedenti che determinano un crollo di credibilità dell'intervento pubblico. Quel crollo di credibilità rese vincente l'iniziativa di chi non aveva alcuna intenzione di rinnovare quello Stato, al fine di permettergli di realizzare i nuovi compiti che gli erano stati assegnati, ma voleva contenere e limitare, se non abolire, quelle sofferte conquiste sociali.
5. Lo stato sociale del '900, pregi e limiti
I limiti dello stato sociale del '900. L'economia keynesiana e l'esperienza sovietica. Limiti e crollo dell'esperienza sovietica. Stato nazionale e stato sociale. I partiti democratici di massa di carattere fordista. Il discredito dello stato sociale del '900. La necessità di un altro tipo di amministrazione pubblica e un altro tipo di partiti. L'avvio di un processo costituente. Il significato di tangentopoli.
Gli stati nazionali, carichi di una storia autoritaria(dove le funzioni più importanti tradizionalmente svolte erano quelle sanzionatorie/repressive e di difesa militare) non hanno saputo intercettare e dare un ruolo istituzionale a quei cittadini attivi, prodotto della crescita sociale e culturale che il welfare state ha prodotto al termine dei suoi "gloriosi trent'anni", come li chiamano gli economisti francesi, tra il '45 e il '75 del secolo scorso e di cui in fondo eventi apparentemente così diversi come degli anni '60, dal Concilio Vaticano II al 68[20], sono testimonianza. Questa incapacità nel sapersi rinnovare, nel dare un nuovo fondamento allargato alla sfera pubblica, ha contribuito in maniera determinante alla crisi dello stato sociale.
Probabilmente l'economia keynesiana, l'esperienza socialdemocratica, non avrebbero mai potuto affermarsi senza la Rivoluzione Russa. Oramai a un secolo di distanza si dimenticano le speranze da essa sollevate e le premesse dalle quali aveva preso le mosse, speranze e promesse di realizzazione degli stessi ideali che avevano animato un movimento sociale che si era dipanato lungo tutta la seconda parte dell'800 e l'inizio del '900, dai mazziniani in Italia, agli anarchici, a tutto il movimento socialista e socialdemocratico, con influenze decisive sullo stesso pensiero sociale cattolico[21].
Al fine di scongiurare una prospettiva così radicale come quella russa, qualche istanza sollevata dall'insieme del movimento dei lavoratori andava accolta: probabilmente il capitalismo non si sarebbe allora mai addomesticato alle esigenze sociali senza quella minaccia, così come negli anni '80 la crisi e il crollo dell'Unione Sovietica ha favorito la nascita del "turbocapitalismo"[22]. Ma è proprio il crollo dello Stato Sovietico, accentrato e autoritario, così simile a quello zarista da cui era nato, a dirci che uno stato sociale moderno in una società complessa e articolata, a cultura diffusa, non si può fondare su quelle forme e pratiche di Stato che abbiamo ereditato dal passato. Si può con quella forma di Stato avviare il processo di creazione di una nuova democrazia, si può percorre il primo tratto di una lunga strada, assegnandogli nuovi compiti sociali, o può divenire lo strumento per fuoriuscire dal sottosviluppo, come è avvento per la stessa Unione Sovietica, per la Cina, l'India e più di una realtà ex coloniale, ma non è uno strumento adatto a gestire la costruzione e lo sviluppo di nuove forme di democrazia, nuove forme di decentramento amministrativo e di sussidiarietà orizzontale, tantomeno nuove forme di "socializzazione dell'economia", di gestione democratica dell'economia.
Del resto forme di cittadinanza attiva come oggi le intendiamo, di sussidiarietà orizzontale, di democrazia economica, o di "democrazia diretta", non ci sono mai state prima di alcuni tentativi nel corso del '900[23]. A qualcosa di simile ci si era avvicinati nel passato solo in alcune comunità locali, con forme alquanto caotiche e tumultuose di partecipazione, da alcune polis dell'antica Grecia ai comuni italiani. Nei grandi Stati territoriali sino alla modernità una città e un popolo detenevano in genere il potere militare che costituiva il cuore dello Stato territoriale, mentre le autorità di ciascuna città amministravano la giustizia secondo le proprie leggi e i propri costumi. Comunque sia, tra Stato territoriale e città stato le funzioni essenziali sono state esercitate attraverso il monopolio della forza, dalla "difesa militare" e all'amministrazione della giustizia (esercitata essenzialmente comminando sanzioni ed esercitando repressione, sino al diritto di vita e di morte sui membri della comunità), secondario rimane lo scopo di garantire e manutenere alcuni beni pubblici, come le vie di comunicazione e la regolazione delle acque.
Un processo di effettiva unificazione delle leggi sul tutto il territorio dello Stato, che permettesse di far funzionare quella comunità come un unico organismo, si ha solo con la nascita e lo sviluppo degli stati nazionali, in Europa tra XIV e XIX secolo, che si accompagnano ad uno sviluppo economico che chiede un rapporto diverso tra centro e periferia e tra base e vertice, e dove la lingua amministrativa non è più il latino, ma quella comprensibile almeno ad un'élite del popolo. Da quella comunità territoriale culturalmente unificata e finalmente comunicante nascerà non a caso lo Stato laico e di diritto, che trova la sua legittimità nel consenso popolare degli Stati liberali, ma il governo resterà nelle mani di una minoranza colta e ricca, mentre l'esercizio della forza, soprattutto nei confronti delle classi subalterne che non hanno diritto di voto in genere, conservava un ruolo dominante nelle funzioni statali. Comunque nel corso dell'800 la creazione e la regolazione del mercato nazionale, le grandi opere di comunicazione e trasporto, l'istruzione necessaria allo sviluppo dell'industria, testimoniano di un intervento pubblico che mai prima d'allora era stato così esteso.
Le cose si complicano quando le classi subalterne si affacciano alla vita pubblica, domandando un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Da un lato quello Stato si va caricando sempre di più di compiti sociali e di promozione del benessere per tutti, dall'altro lato la sua antica natura e struttura militaresca, autoritaria e del monopolio della violenza riemerge costantemente sul piano interno ed esterno e quella partecipazione popolare viene bruciata nelle avventure militari di carattere imperialistico che dalla notte dei tempi costituiscono la normalità della politica estera degli stati. Si pensi all'esercito "di massa" di Napoleone e alle sue guerre rovinose per i francesi, alle guerre mondiali del XX secolo, con i loro stermini di massa. Da quella natura autoritaria dello Stato plasmata nei secoli, viene anche un contributo decisivo al tradimento delle promesse democratiche delle rivoluzioni, da quella francese in poi.
Dopo stermini di massa mai visti prima nelle due guerre mondiali del '900, finalmente prevale con chiarezza la funzione di promozione della personalità umana da parte dello Stato[24], ma al di là dell'affermazione di quei grandi e nuovi fini, ci si troverà ancora di fronte a stati attrezzati più a garantire le funzioni del passato che quelle nuove.
Del resto lo stesso "moderno principe" che guida quegli stati, cioè il partito democratico di massa della prima repubblica, è organizzato su un modello fordista, con un gruppo molto qualificato al centro, una base che ha funzioni esecutive, pur in un dialettico confronto. Si organizzano grandi azioni collettive scioperando e manifestando, attraverso le campagne elettorali. Si punta così ad ottenere impegni dello Stato a garanzia di una diversa distribuzione dei redditi, attraverso la manovra fiscale, ma anche attraverso il contratto nazionale di lavoro, a cui in Italia la Costituzione dà forza di legge. I partiti di massa si limitano cioè ad indirizzare l'azione dell'istituzione pubblica senza cooperare alla sua realizzazione che, anche se affidata solo a quest'ultima, risulta efficace dovendo in genere tutelare processi di più facile esecuzione, come ad es. i trasferimenti monetari.
La cosa diviene più complessa quando alle istituzioni pubbliche vengono affidati compiti non solo di carattere redistributivo. Questo si vede bene nella crescente difficoltà di far funzionare in maniera virtuosa gli strumenti di intervento pubblico in economia, si pensi:
- agli sprechi e le inefficienze nell' "industria di stato", delle "partecipazioni statali";
- alla pletora delle nomine pubbliche e parapubbliche, come in gran parte delle banche nazionali e locali, allora pubbliche, secondo criteri di appartenenza di partito e di gruppi di potere locali e nazionali;
- alla promessa programmazione economica che non decolla negli anni '60 e '70[25];
- all'uso distorto dei finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, Mezzogiorno che con quelle politiche non si avviava ad acquisire una propria autonomia, ma vedeva il formarsi di una doppia dipendenza: quella tradizionale dai centri di potere economico del Nord Italia e quella dalla spesa pubblica, che alimenta a dismisura il fenomeno clientelare e finisce per rafforzare le mafie, uno Stato nello Stato che orienta e dirotta una parte di quella spesa;
- alla spartizione delle risorse pubbliche da parte dei partiti, che nelle inamovibili maggioranze di una democrazia senza ricambio bloccata dal fattore K erano diventati un ceto politico, più che momenti decisivi della rappresentanza popolare.
La crescente difficoltà delle istituzioni pubbliche si vede bene anche guardando al funzionamento delle istituzioni pubbliche locali negli stessi anni. stato sociale significava in concreto un arricchimento delle funzioni di intervento e regolative di quegli enti pubblici (piani regolatori, piani del sociale, piani sanitari, municipalizzate, ecc.). Non più solamente uno stato sociale redistributivo, più semplice da attuarsi, ma istituzioni pubbliche che dovevano dirigere il processo di sviluppo del territorio e sociale. Una crescita di funzioni che quel sistema istituzionale e politico non ha retto, compreso i vecchi i partiti, che avevano creato e voluto un nuovo che è andato oltre quel che gli permetteva il loro Dna.
Per poter effettivamente governare il territorio come le nuove funzioni attribuite alle istituzioni locali chiedevano ci voleva un altro tipo di amministrazione pubblica e un altro tipo di partiti. Un'amministrazione pubblica con le competenze tecniche necessarie a governare quei processi e non solo ad applicare procedure burocratiche di controllo come era nella sua tradizionale funzione, procedure burocratiche che si riveleranno ampiamente inefficaci.
Partiti che non potevano più limitarsi a organizzare i propri iscritti e le proprie "sezioni" di base in azioni ripetitive, da fabbrica fordista, nella propaganda elettorale, imbucando volantini o facendo comizi, ma che avrebbero dovuto saper leggere i bisogni del territorio e saper dirigere processi di governo economico e sociale con capacità di carattere tecnico + politiche. Occorreva una riforma della pubblica amministrazione, dei processi di governo e degli stessi partiti[26], che in parte fu tentata negli anni in cui la spinta all'innovazione sociale fu più forte, ma ne mancavano i presupposti: deboli erano le forze capaci di delineare e realizzare "questo processo costituente"[27], così la spinta degli anni '70 si esaurì tra lo stragismo della strategia della tensione, che ci ricordava che esiste un "doppio Stato"[28] e l'azione dei partiti che non riusciva a comprendere quelle nuove necessità[29].
Nel nuovo e più alto intreccio tra politica ed economia, le istituzioni pubbliche invece di regolare e dare gli indirizzi di sviluppo all'economia privata sono diventate subalterne alla stessa economia privata e al mercato, sia culturalmente che praticamente: la spiegazione, il nocciolo del problema di tangentopoli in realtà sta qui. Non c'è uno spazio pubblico dove dilaga il malaffare ed uno privato virtuoso, o una politica corrotta che sottrae risorse all'iniziativa privata. In realtà dietro c'è una crisi del ruolo dell'istituzione pubblica, che culturalmente e spesso praticamente, è diventata subalterna alla logica del mercato: quel che è corruzione per l'amministratore e il funzionario pubblico, è in realtà la regola per il rapporto di mercato, dominato dal negozio, dal denaro e non dalla norma.
6. La crisi delle forme di democrazia delegata
La crisi delle forme di democrazia delegata nei paesi sviluppati. Le tesi del sovraccarico da domanda, della crisi fiscale dello stato sociale, della crisi di governabilità. Crisi degli Stati nazionali e globalizzazione.
La nascita dello stato sociale, si è storicamente accompagnata e ha trovato la sua legittimità nello Stato democratico, con le sue forme di "democrazia delegata" ereditate dallo Stato liberale, ma allargate a tutta la popolazione adulta, quindi Stato di diritto (la legge è uguale per tutti, garantita dall'equilibrio dei poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario) più suffragio universale. La crisi dello stato sociale si accompagna e trova una delle sue ragioni nella crisi di quella forma di democrazia delegata. Il problema si è posto in buona parte dei paesi sviluppati e democratici sostanzialmente dopo il '68 e nel corso degli anni '70.
Di fronte a quella crisi, che investì anche il nostro paese, la risposta risultata vincente nel corso degli anni '80 e '90 è stata quella di corazzare la democrazia delegata attraverso il rafforzamento dell'esecutivo, sia attraverso un'azione di carattere populistico/plebiscitaria che si è avvalsa dell'uso spregiudicato del mezzi di comunicazione di massa, in particolare della TV privatizzata, e questo è avvenuto in buona parte d'Europa, sia attraverso leggi elettorali di carattere maggioritario, e questo è avvenuto in particolare in Italia.
Avevano fatto culturalmente da supporto a quelle soluzioni, analisi della crisi che individuavano il problema delle democrazie nel "sovraccarico da domanda"[30] o nella "crisi fiscale dello stato sociale"[31] che ponevano il problema della riduzione della spesa pubblica e della "governabilità"[32], da risolvere attraverso una semplificazione dei meccanismi decisionali, sia, come abbiamo visto, a livello politico nazionale, ma anche nella gestione delle istituzioni locali e degli enti pubblici, attraverso l'esaltazione della "cultura d'impresa", profit. Così tanti enti pubblici sono diventati "aziende", con management che doveva perseguire più obbiettivi di carattere quantitativo che qualitativo e sociale, com'è per i beni affidati al mercato, le merci; promuovendo la "meritocrazia", dando di fatto più potere e reddito a chi già sa, dimenticando l'impegno ad educare e rimuovere gli ostacoli che impediscono "il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese"[33].
Diversa la tesi sulla "crisi degli stati nazionali"[34], che di fronte ai crescenti processi di internazionalizzazione, quella che dopo si sarebbe chiamata globalizzazione, metteva in evidenza come i poteri dello stato sociale nella regolazione dei processi economici a livello nazionale risultassero alla lunga inefficaci se non venivano spostati a livello transnazionale, attraverso processi di costruzione di federazioni tra stati. Era una giusta impostazione che sottolineava la necessità, a livello europeo, ma anche di altre aree del mondo, di andare oltre le aree di libero scambio che nel frattempo erano andate formandosi. Sulla base di quella tesi si è effettivamente andati ad un ampliamento delle istanze democratiche nella UE, in particolare del Parlamento Europeo, e alla nascita dell'Euro, nella speranza che la moneta unica prima o poi avrebbe portato anche a politiche economiche comuni. Cosa che in un clima di nazionalismi diffusi dovuti nell'Est europeo dall'implosione dell'Urss e ad Ovest dalla concorrenza, anche tra gli stessi lavoratori, che la globalizzazione e la crisi ingeneravano, in realtà non è avvenuta affatto, con l'imposizione degli interessi degli stati più forti su gli altri[35].
7. Dalle consulte alla sussidiarietà orizzontale
La diffusione verso il basso delle pratiche della democrazia delegata. Un'altra forma di impegno sociale e politico che rovescia il paradigma. La lunga marcia attraverso le istituzioni e la sussidiarietà orizzontale.
Nello stesso periodo il tentativo democratico di risposta a quella crisi di legittimità fu essenzial-mente allora di diffusione verso il basso delle pratiche della democrazia delegata, con la nascita dei vari consigli di zona o circoscrizione, le comunità montane, i consigli scolastici, le varie forme di consulte di settore. Il risultato paradossalmente fu l'inverso di quello sperato: il "ceto politico" dei "rappresentanti" che vivevano di quel "mestiere" diveniva sempre più numeroso e finiva per delinearsi come un ceto a sé, sempre meno in sintonia con coloro che pretendeva di rappresentare.
Negli stessi anni, però, da quel movimento, iniziato con il '68 studentesco e proseguito in Italia con l'"autunno caldo" del '69, che aveva inventato forme nuove diffuse di responsabilizzazione e partecipazione che cercavano di basarsi sempre più sulla non delega (le assemblee scolastiche e nei luoghi di lavoro, i delegati di reparto e i consigli di fabbrica e di azienda invece delle commissioni interne) e che poi aveva dato luogo ai suoi "partitini extraparlamentari", tutti significativamente falliti, emergeva in maniera molecolare e sotterranea una forma di impegno sociale e politico che rovesciava il paradigma[36]: non tanto diffusione della democrazia delegata verso il basso, quanto forme di democrazia diretta che si facevano carico delle problematiche sino ad allora terreno esclusivo delle istituzioni, nel perseguire l'interesse generale. Si potrebbe dire che l'aspirazione di un filone di pensiero e di azione del '68, di realizzare una "lunga marcia attraverso le istituzioni", allora auspicata da Rudi Dutschke[37], concretamente attraverso quella via si realizzò.
Tutto ciò di fatto si ritrova sia nella stessa concezione del volontariato, di "militanza senza appartenenza"[38] di chi si fa carico dei problemi della comunità senza appartenere ad alcun partito, sia nella legislazione riguardante il TS, che pur con qualche confusione in questo senso si muove, a partire dalla legge quadro per il volontariato 266/91 e finendo con l'u.c. dell'art. 118 della Costituzione sulla sussidiarietà orizzontale[39].
Era un rovesciamento di paradigma: la crisi della democrazia si poteva risolvere non tanto se le istituzioni pubbliche cercavano di farsi società, ma se la società, quella civile, si fa Stato. La sussidiarietà orizzontale, a ben guardare, è questo.
8. I beni comuni
La crisi del concetto di bene pubblico. Una nuova tassonomia, che non faccia riferimento al soggetto ma all'utilizzo dei beni. Beni comuni, pubblici, privati. Cittadini attivi e adeguamento della Costituzione.
Sulla scorta della crisi del concetto di bene pubblico, che si è fatta strada a seguito dei processi di privatizzazione, ma anche delle pratiche di sussidiarietà orizzontale che sono andate diffondendosi negli ultimi decenni, si va formando un nuovo pensiero giuridico intorno ai beni comuni[40], che integra e modifica i concetti giuridici di bene pubblico e privato.
Da un lato nella classificazione dei beni il pensiero giuridico si sta orientando verso una nuova tassonomia, una nuova classificazione dei beni[41], che non faccia tanto riferimento al soggetto che esercita un diritto sui beni, come sinora ha previsto il C.C. (Codice Civile)[42], ma all'utilizzo degli stessi beni, invertendo il percorso classico. La commissione Rodotà ha in questo senso proposto la «Distinzione dei beni in tre categorie: beni comuni, beni pubblici, beni privati»[43], introducendo la categoria del beni comuni, sinora non presente nel C.C. e riferita sia a beni naturali che sociali, materiali e immateriali. I beni comuni sono «cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall'ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere istituzioni pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge», come del resto da tempo avviene per i beni di carattere culturale ed archeologico[44]. Si sta cioè facendo strada la consapevolezza che l'attività umana non può esercitarsi senza senso del limite, della soglia da rispettare, della necessità di un'autoregolazione, pena mettere a rischio i diritti fondamentali delle persone, soprattutto quanto ai beni sociali, e lo stesso ecosistema, quanto ai beni naturali.
Dall'altro lato, quanto ai diritti sui beni da parte dei soggetti, è da rilevare che oggi non ci sono solo le pubbliche istituzioni, ma anche i cittadini attivi che agiscono nell'ambito del principio di sussidiarietà orizzontale, quindi non si può parlare solo di beni pubblici su cui esse hanno esclusivo potere di intervento.
Infine è da rilevare che quella proposta dalla Commissione Rodotà si muove nel solco dell'adeguamento alla Costituzione della Repubblica del C.C. approvato precedentemente, in tutt'altro clima politico e sociale nel 1942: mentre la Costituzione prevede uno "stato sociale"[45] il codice civile non gliene fornisce gli strumenti, e questo vale non solo per il principio di sussidiarietà inserito molto dopo, ma proprio sui limiti di responsabilità sociale al diritto di proprietà inseriti nel 1948 che indubbiamente si staccano da quella antica concezione del diritto di proprietà come ius utendi ed abutendi ancora presente nel C.C. del 1942.
9. Non per profitto
L'economia di mercato e non di mercato, l'economia for profit e non profit. L'economia solidale. La convergenza/distinzione tra economia solidale e pubblica. L'economia solidale una nuova maniera di produrre beni e servizi.
Le attività economiche possono essere di mercato e non di mercato. Non necessariamente l'economia di mercato è svolta a fini di lucro e per profitto, si pensi alletradizionali forme di economia familiare il cui fine è il sostentamento della famiglia, ma anche all'economia di carattere mutualistico e cooperativo (che non può essere svolta a «fini di speculazione privata», art. 45 della Costituzione). Diversa è l'economia di mercato for profit, perché qui il fine principale non è né il sostentamento della famiglia, né un'occupazione remunerata per i lavoratori, qui il fine è svolgere un'attività che crei un profitto a remunerazione del capitale.
L'area delle attività non di mercato è nello stesso ordinamento giuridico dei paesi "di libero mercato"[46] sempre stata molto ampia, anzi più ampia di quella profit: pensiamo alla sfera pubblica, alla sfera della riproduzione e della vita affettiva e familiare, agli enti religiosi ed ecclesiastici, agli istituti di carattere culturale e morale. Si tratta di quelle attività che per il loro elevato contenuto di carattere etico, culturale, "spirituale", affettivo, non possono avere un prezzo, non sono mai passate attraverso il mercato. Infine negli ultimi decenni alle attività non di mercato si è venuta aggiungendo l'attività sociale svolta dal mondo del volontariato, che attraverso l'opera gratuita dei volontari si rivolge alle persone e non al loro potere d'acquisto.
I volontari, in misura diversa, sono presenti in tutte le organizzazioni di TS, dalle associazioni che nella nostra legislazione si chiamano di promozione sociale, alle organizzazioni di volontariato, che entrambe agiscono non al livello del mercato, alle cooperative sociali, che possono anche agire nell'economia di mercato. L'insieme di queste organizzazioni costituiscono il complesso dell'economia solidale[47], che è in continua crescita. Il problema è che questo mondo deve prendere coscienza del proprio ruolo, deve imparare a interagire con una propria strategia con il sistema economico ed agire esso stesso come un sistema.
Un elemento unificante di fondo di questo mondo è innanzitutto quello di agire non per profitto. Nelle attività for profit gli effetti sociali e sulla natura, sull'ambiente, sono del tutto secondarie, le attività sono cioè strumentali all'accumulazione del profitto. Nelle attività non per profitto invece, come già individuato nella nostra legislazione, l'elemento di distinzione sta proprio nel fatto che sono proprio gli effetti sociali e sulla natura di quelle attività il fine istituzionale da perseguire; l'aspetto economico a tutta evidenza esiste, ma è strumentale alla realizzazione di quei fini sociali.
La forte crescita del mondo nonprofit negli ultimi decenni, anche se si tratta di una realtà ancora minoritaria, non può non far legittimamente pensare, dopo il fallimento delle economie statalizzate ma anche dell'economia profit di mercato nel garantire lo sviluppo equo e sostenibile, a una nuova prospettiva[48].
Il nonprofit dell'economia solidale, svolge un ruolo convergente con quello dell'economia pubblica, correggendo le distorsioni create dall'economia di mercato, ma ancor più dall'economia for profit.
L'ampliamento dell'intervento diretto e redistributivo dello Stato ha introdotto importanti correttivi all'economia di mercato profit, ma così si è sottratto spazio alla società civile, basandosi sull'autorità assoluta e la forza delle istituzioni statali, sulla base di una decisione solo politica.
Quindi non solo ci siamo trovati di fronte ad un ampliamento dell'intervento dello Stato frutto di un compromesso politico, che poteva essere messo in discussione rotto quel compromesso, ma a un intervento fatto con gli strumenti tradizionali delle istituzioni statali, di quello Stato che avevamo ereditato dal passato, di carattere autoritario e imposto, realizzato attraverso la forza e l'imposizione politica che può esercitare lo Stato. Non si trattava di un nuovo modo di produzione, alternativo a quello profit, ma a un correttivo politico di quest'ultimo.
L'economia solidale è invece una nuova maniera di produrre beni e servizi, che interagisce con la stessa struttura pubblica, con il resto dell'economia familiare e cooperativa, ma anche con la stessa economia profit, rafforzando le finalità sociali dell'insieme del sistema economico.
Non è insomma semplicemente frutto di una scelta politica, di leggi che pubblicizzano o privatizzano rapidamente anche interi comparti produttivi come è avvenuto anche in Italia, è un processo strutturale nell'ambito della società, che fa nascere nuovi, stabili, attori sociali che basano la loro azione su una scelta di solidarietà, sulla cittadinanza attiva esercitata liberamente e consapevolmente. Hanno quindi una valenza profondamente diversa.
10. E' iniziata la fine del ciclo neoliberista, sia per quanto riguarda l'economia che la politica?
Neoliberismo e populismo. Le crisi finanziarie sempre più pesanti. La cultura "neoliberista" è ancora egemone, nonostante il salvataggio delle banche da parte degli Stati nazionali. La crisi mondiale è tuttora in corso, non essendo intervenuti sulle sue cause strutturali. Regolazione dei mercati finanziari e programmazione dell'economia.
L'ondata neoliberista ha caratterizzato l'economia come la politica con quel miscuglio di privatizzazione della vita pubblica e populismo demagogico, perché invece di affrontare il problema del rinnovamento dello Stato ha pensato si potesse fare a meno della complessità della politica, riducendola a pura propaganda, a tecniche della comunicazione. Questo è avvenuto non solo in Italia, ma in buona parte dei paesi economicamente sviluppati, e questo oggi è al fondo della crisi del "berlusconismo", che nonostante la forza del denaro e dei mezzi di comunicazione perde sempre più i pezzi di una possibile maggioranza di governo.
Dal punto di vista economico, poi, le crisi finanziarie sempre più pesanti dalla fine degli anni '80 ad oggi, hanno reso evidenti le contraddizioni e gli squilibri di quelle politiche: non solo c'è stato un rallentamento economico progressivo sino alla stagnazione in molti paesi, ma è anche considerevolmente aumentato il debito pubblico in questi trent'anni[49]. Infine gli stati nazionali, il cui intervento era stato prima demonizzato, sono intervenuti ampiamente per salvare il sistema finanziario, smentendo la capacità di autoregolazione dei mercati.
Ma quella cultura "neoliberista" è ancora egemone, ha influenzato profondamente le classi dirigenti e lo stesso senso comune, tant'è che perdura non solo la rinuncia ad una regolazione dell'economia, ma anche ad introdurre una minima regolazione del mercato finanziario, nonostante il salvataggio appena operato da parte degli Stati del sistema bancario (con uno stanziamento che per i soli Usa è stato di 820 mld di dollari) e nonostante le proposte in tal senso avanzate, timidamente, da governi importanti come quello francese e tedesco (si pensi, quanto alla regolazione delle transazioni finanziarie internazionali, all'abissale differenza con quanto si fece nel luglio del '44 a Bretton Woods).
In questo quadro si inscrive la rinuncia dell'Unione Europea ad attuare delle politiche economiche per uscire dalla crisi: si prestano soldi ai Paesi con un sistema finanziario pubblico o privato fortemente indebitato e si impongono loro politiche di riduzione della spesa pubblica perché lo Stato è andato in soccorso dell'indebitamento privato, ma non si parla della possibilità di varare da parte dell'UE politiche economiche correttive degli squilibri accumulatisi in questi anni Il problema non è solo quello del turbocapitalismo finanziario[50], «La crisi mondiale esplosa nel 2007-2008 è tuttora in corso. Non essendo intervenuti sulle sue cause strutturali, da essa non siamo di fatto mai usciti. Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori. Per lungo tempo questo divario è stato compensato da una eccezionale crescita speculativa dei valori finanziari e dell'indebitamento privato che, partendo dagli Stati Uniti, ha agito da stimolo per la domanda globale.»[51].
Occorre cioè tornare a puntare come leva dello sviluppo sul miglioramento del benessere delle popolazioni come nei "gloriosi trent'anni" del dopoguerra, puntando cioè più sul mercato interno che sulle esportazioni, che ci hanno condotto ad una concorrenza esasperata a livello mondiale, che da un lato ha peggiorato e precarizzato le condizioni di vita dei lavoratori e dall'altro ha determinato avanzi rilevanti nei Paesi esportatori (ad es. Cina, Germania, Olanda, Giappone) e disavanzi e debiti negli altri[52]. Il contrario di ciò che sta facendo la UE, che invece di regolare i mercati finanziari e attuare delle politiche economiche di rilancio dell'economia, pretende di far pagare le spese di quelle politiche di liberalizzazione prima e di salvataggio delle banche poi da parte degli Stati, ai cittadini, attraverso un taglio dei servizi pubblici e della spesa pubblica.
Occorre puntare su diversi consumi, non solo privati che in alcuni campi hanno oramai raggiunto il limite di saturazione come nella produzione di automobili, ma sulla cura dei beni comuni, sulle infrastrutture pubbliche (come fu proposto dal Piano Delors mai attuato[53]), sulla qualità della vita, sulla salvaguardia dell'ambiente, sulla pianificazione del territorio, sulla mobilità sostenibile, sul risparmio energetico e sulle energie alternative verdi, sulla cultura, sulla cura delle persone, sulla fuoriuscita dal sottosviluppo e dalla povertà che ancora persistono per grandi masse umane.
Si pone quindi un problema di regolazione e programmazione economica, di ripresa della questione della democrazia economica, di un rilancio dello sviluppo economico che guardi ai beni comuni, oggi e per le generazioni future.
11. C'è una via d'uscita alla crisi che attraversiamo?
Il modello di sviluppo consumistico e i Paesi emergenti. Un rilancio dello sviluppo su basi eque e sostenibili. L'Europa più neoliberista degli USA di Obama.
Se l'analisi sino a qui condotta sulla difficile fase storica di crisi che sta attraversando il nostro paese (e non solo) è sufficientemente vicina alla realtà, ci spiegherebbe le miserie politiche e le difficoltà economiche di questi anni in Italia, ma contemporaneamente ci indicherebbe che questa fase si sta avviando verso il declino, anche se non sappiamo quanto durerà il declino, se abbiamo di fronte un periodo lungo di ulteriore caos o se riusciremo ad uscirne più rapidamente, perché si sarà trovata l'intelligenza e la forza di dare soluzione ai problemi strutturali che hanno causato la crisi.
Quanto al destino del nostro modello di sviluppo, consumistico e sprecone,c'è chi sostiene che una speranza che venga abbandonato c'è. Come è noto, basta leggere qualsiasi rivista economica e si sprecano le previsioni su quando la Cina supererà gli USA nel PIL (secondo Jim O'Neill, capo economista di Goldman Sachs ciò avverrà nel 2027[54]), ma già oggi la Cina è la seconda potenza economica mondiale grazie ad una crescita strepitosa dalla creazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. Nonostante questa crescita, però, il reddito pro capite cinese è ancora il 4% di quello dei paesi ricchi[55], ma è un 4% che va ponderato con il numero della popolazione cinese, lo Stato più popoloso del mondo. Insomma, nonostante i grattacieli di Shanghai, la Cina è ancora agli albori dell'applicazione del nostro modello di sviluppo, estenderlo a tutta la popolazione cinese è ben altra cosa. Stesso discorso può farsi per l'India, altro Paese emergente. Insieme Cina e India costituiscono il 37% circa della popolazione mondiale, oltre due miliardi e mezzo di persone. Immaginate se si applicasse a tutta la popolazione cinese e indiana il nostro modello di consumi e sviluppo: se oggi avessero tante auto come gli italiani sarebbero un miliardo e mezzo di auto, non si vede quali strade le possano contenere e non parliamo dell'effetto serra. Quindi cinesi e indiani hanno più probabilità di noi di arrivare a un modello di sviluppo diverso, che punti sui consumi collettivi, sui beni comuni, sulla qualità della vita e delle relazioni umane più che sulla quantità di beni materiali individuali posseduti. Quindi, anche senza immaginare una vittoria della filosofia della decrescita[56], non mancano in prospettiva le possibilità di un rilancio dello sviluppo su basi eque e sostenibili, visto che nel prossimo futuro saranno quelli i paesi guida dello sviluppo economico internazionale. Inoltre è da non sottovalutare che questi Stati hanno mantenuto un ruolo di regolazione dello sviluppo economico da noi abbandonato.
Nel frattempo l'Europa che fa? Rimane ancorata più degli USA di Obama alle politiche neoliberiste o riprende e rilancia ad un livello più maturo e avanzato lo stato sociale e del benessereche l'aveva caratterizzata nel secondo dopoguerra e che ne aveva garantito lo sviluppo?
Certo non può essere quel welfare state, che, come abbiamo visto, doveva essere profondamente rinnovato da tempo nel suo funzionamento e nel suo rapporto con la società, ma su quale direzione debba avere questo rinnovamento ora abbiamo indubbiamente qualche idea chiara in più, e il TS non può non essere un protagonista di questo processo.
12. Quale ruolo per il TS in Italia?
La tumultuosa crescita del TS. Sviluppo economico, storia democratica di un territorio e nonprofit basato sulla cittadinanza attiva. Il TS non forma ancora un blocco sociale, e ancor meno un blocco storico. Frammentazione, localismi e TS. I tempi e la volontà di costruire una consapevolezza comune. Volontariato, Aps e coopsociali. Superare i corporativismi. TS ed iniziativa sociale e politica. Un terzo meridionalismo.
Il TS in questi anni è stato in Italia in tumultuosa crescita[57], naturalmente si è discusso molto se questa crescita fosse stata dovuta dalle politiche pubbliche di esternalizzazione dei servizi, sospinte dai continui tagli alla spesa pubblica. Indubbiamente le politiche istituzionali in materia di una parte delle Regioni hanno incentivato la nascita di cooperative sociali. Difficilmente si può però sostenere che ciò sia avvenuto per le Odv, piuttosto ci sono state delle organizzazioni di volontariato sospinte a trasformarsi in cooperative sociali. In realtà c'è una stretta connessione tra sviluppo economico, storia democratica di un territorio e sviluppo del nonprofit basato sulla cittadinanza attiva. Potremmo dire che si tratta di un processo di carattere strutturale: mano mano che crescono sia gli spazi di libertà (dal lavoro necessario alla sopravvivenza e la libertà di associazione), come la capacità di associarsi (si pensi alla crescita dei livelli di istruzione[58]), cresce anche la capacità di autorganizzazione della comunità e dei cittadini, anche indipendentemente dalle politiche pubbliche. In fondo non si tratta di una novità, ma di una strada già intuita tempo fa[59]. Non è un caso che le indagini comparate sul TS di cui disponiamo diano, in Europa, nettamente in testa i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e la Francia[60] con un numero di volontari e un peso del nonprofit due o tre volte i nostri.
Insomma, il TS è un soggetto sociale in crescita e che al di là delle inevitabili ambiguità di un processo sociale così vasto e duraturo ha acquisito un suo posto nella società italiana e nell'immaginario collettivo, forse più come volontariato che come TS.
Detto questo è però difficile sostenere che il TS formi un nuovo blocco sociale, cioè un insieme di soggetti e forze sociali consapevoli di condividere una simile posizione sociale[61]. Ancor meno si è formato un blocco storico e cioè un blocco sociale che condivide una cultura politica, una visione di medio/lungo periodo del proprio ruolo sociale tale da far si che esso possa essere protagonista consapevole della storia del nostro Paese.
Frammentazione, localismi, concorrenza a volte[62], certo sono ancora molto presenti, ma non è stato così anche per altri soggetti storico/sociali tuttora in campo? Ad esempio, il movimento dei lavoratori non ha impiegato alcuni decenni prima di passare dalle diverse società di mutuo soccorso alla costruzione di organizzazioni di carattere nazionale nel campo sindacale, cooperativo o dei partiti politici? Ma persino la retorica sui fini del volontariato e del TS è indice di una consapevolezza comune che ci sono degli elementi strutturali, di fondo, che uniscono questo variegato mondo, si tratta ora di arrivare almeno ad un'unità di azione.
Il TS è un soggetto sociale in cammino, che sta prendendo coscienza di sé, non è una cosa scontata che ciò avvenga, ma bisogna esercitare volontà e intelligenza affinché possa avvenire, persino la denominazione di TS forse indica lo stato dell'arte[63]: ci si definisce per esclusione rispetto a Stato e Mercato, ma non si comunica un proprio messaggio autonomo. Indubbiamente si comunica più efficacemente se si parla di volontariato, cittadinanza attiva, economia solidale, sono termini chiari, troppi però. Occorre cercare una sintesi, ma non è facile trovarla: cosa accomuna volontariato, associazioni di promozione sociale e coopsociali? Sono organizzazioni nonprofit, con forme giuridiche democratiche, dove le persone partecipano in quanto tali non per le quote sociali o i capitali che posseggono, tutte e tre, in misura diversa, vedono poi una presenza dei volontari[64].
Storicamente si può dire che Aps e coopsociali sono il patrimonio rinnovato che ci ha lasciato il movimento operaio, nelle sue diverse versioni laiche e confessionali, patrimonio rinnovato perché si organizza intorno a "valori e beni comuni" non in difesa degli interessi. Nel volontariato della 266/91 invece, nonostante la presenza di storiche organizzazioni di carattere caritatevole o di mutuo soccorso (ad es. Misericordie e Pubbliche assistenze), sono confluite le organizzazioni di cittadinanza attiva, prodotto di un processo molecolare avviatosi negli anni settanta spesso al di fuori delle aggregazioni preesistenti e che è andato avanti.
In realtà si tratta di tre forme di azione sociale che si sono sviluppate in parallelo e intrecciandosi in questi anni e che avrebbero anche la necessità di una legislazione che le sappia di più mettere in relazione tra di loro.
Le organizzazioni del volontariato e del TS, che faticosamente stanno cercando loro forme di espressione e rappresentanza unitarie a livello locale e nazionale, che hanno funzionato nel promuovere una modifica della legislazione nei loro campi di intervento[65], faticano ad uscire da questa impostazione settoriale e non raramente corporativa, nel muoversi verso gli spazi che a loro apre la nuova norma costituzionale nello «svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», al pari delle pubbliche istituzioni.
Volontariato e TS sono stati però in questi anni in prima linea in tante battaglie per la pace, per un diverso modello di sviluppo equo e sostenibile, per i beni comuni e contro la loro privatizzazione, come nel caso dell'acqua. Non si è trattato solo di manifestazioni di piazza, ma anche di promozione di processi complessi: Tra tutti ricordiamo la costituzione della Fondazione per il Sud, avvenuta in una fase nella quale prevalevano politiche che andavano in senso opposto, di rottura della solidarietà nazionale e di affermazione degli egoismi territoriali della parte Nord, ricca, del Paese. Si è così intercettato il meglio del pensiero meridionalista, dando avvio a un terzo meridionalismo. Dopo il primo meridionalismo degli inizi del Novecento di denuncia dei rapporti di dipendenza stabilitisi all'Unità d'Italia verso il Nord e delle politiche assistenzialistiche e clientelari che vi fecero seguito, dopo un secondo meridionalismo economico-tecnocratico, che puntò sull'intervento straordinario per recuperare il "ritardo storico". «Un terzo meridionalismo ha ora la consapevolezza che, oltre agli aspetti politici ed economici, centrale è la questione culturale e sociale. Quello che era un tempo un panorama di grande disgregazione, povero di soggetti e culture autonome, facilmente arreso a poteri notabiliari e sistemi di clientele partitocratiche, negli ultimi decenni mostra un ricco fermento di soggetti della cooperazione, del volontariato, dell'associazionismo di promozione sociale, del servizio civile e della cittadinanza attiva. La terza possibilità del Mezzogiorno può dunque partire da rapporti di sussidiarietà virtuosa tra cittadini e istituzioni territoriali rinnovate. Quello che né gli uni né le altre possono fare da soli, insieme possono tentare. Anche sconfiggere le mafie e ridare speranza all'intero paese»[66].
13. TS, riforma istituzionale e del sistema politico
I tentativi di riforma costituzionale. Il drastico ridimensionamento del ruolo dei partiti. "Ridare lo scettro al principe" o riforma dello stato sociale e dei partiti con la cittadinanza attiva? La Costituente della strada. Non sostituirsi ai partiti, ma costruire una catena di casematte nella società civile. Rinnovare i partiti, che devono tornare ad essere intellettuali collettivi. Compito dei partiti dovrebbe essere quello di fornire un quadro generale di analisi e di politiche, entro il quale anche il TS trovi il suo posto.
La transizione italiana da un sistema istituzionale ad un altro è aperta da
tempo, si pensi alle diverse Commissioni bicamerali per le riforme istituzionali (Bozzi 1983-1985, De Mita-Iotti 1993-1994, D'Alema 1997) e alle due riforme della Costituzione, di cui una riuscita nel 2001 e una fallita nel 2006, e alla volontà di modificarla ancora. Come dicevamo all'inizio non si può dire che il sistema bipolare italiano abbia dato buona prova di sé, ci ha fatto scivolare lentamente in un sistema politico di carattere populistico e plebiscitario, che neppure ci ha dato stabilità.
Il tentativo da parte del sistema dei partiti d'allora di autoriformarsi, con le diverse bicamerali, non riuscì e il prezzo da loro pagato con "tangentopoli" e le riforme elettorali maggioritarie fu un drastico ridimensionamento del ruolo dei partiti come "intellettuale collettivo", come connessione tra società civile e politica, ciò che è rimasto appare dall'esterno come ceto politico che si contende l'elettorato. Era possibile un'autoriforma senza soggetti sociali che la sostenessero? Potevano quei soggetti storici in crisi diventare i medici di sé stessi?[67] Era allora in campo un'altra ipotesi di riforma delle istituzioni di carattere meno demagogico che quella di saltare le mediazioni della politica e di "ridare lo scettro al principe" con il maggioritario bipolare[68]? Forse sì, se fosse effettivamente stato possibile in quel frangente avviare un processo di riforma dello stato sociale, dei partiti in una relazione feconda con le forme della cittadinanza attiva che si era andata formando. Ma i partiti, e non solo, furono sordi a quella prospettiva[69], mentre i soggetti che potevano essere protagonisti di un processo diverso ci provarono un po' timidamente nel 1993 con la Costituentedella strada[70], ma fu una breve stagione. La cultura neoliberista era trionfante, il mondo del lavoro diviso, le nuove organizzazioni sociali "per valori e beni comuni" impreparate nel loro insieme a fare effettivamente da battistrada in quella direzione, anche se si intuiva con chiarezza la nuova funzione che quel mondo avrebbe potuto svolgere.
E' oggi diversa la situazione a quasi vent'anni di distanza? Noi pensiamo di sì: la "seconda repubblica" è già in crisi, anche il lungo ciclo neoliberista è in crisi, il TS è più numeroso e un po' più robusto di allora, è una forza in campo per cambiare lo stato sociale almeno sui terreni in cui più interviene. Il tempo l'abbiamo, probabilmente e purtroppo la crisi non sarà breve. Non si tratta come volontariato e TS di sostituirsi ai partiti, si tratta di avviare pratiche diverse, di rinnovare il senso dello Stato attraverso la propria azione e con la coltura della solidarietà, di costruire una catena di casematte[71] nella società civile basate sulla cittadinanza attiva e l'economia solidale. A un certo punto certo si porrà il problema di rinnovare i partiti, che devono tornare ad essere intellettuali collettivile cui idee ci diano memoria della nostra storia, ma anche una visione del futuro. Saranno molto probabilmente diversi da quelli della prima e della seconda Repubblica, perché nei diversi settori di intervento dai quartieri al livello nazionale opereranno anche "cittadini associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale"con competenze specifiche e capacità di intervento nel loro campo. Compito dei partiti a livello locale e nazionale dovrebbe essere quello di fornire un quadro generale di analisi e di politiche, entro le quali trovi un suo posto l'azione, così resa convergente, delle altre associazioni dei cittadini attivi.
14. Le ambizioni della rivista
L'ambizione di questa rivista è, nel suo piccolo, quella di accompagnare questa crescita di consapevolezza della funzione che può svolgere il volontariato e il TS nel far uscire il nostro Paese dalla crisi nella quale si trova. Affinando la propria cultura, discutendo di come rafforzare le forme di coordinamento e rappresentanza, ragionando dei processi di riforma dell'azione pubblica innanzitutto nei campi già aperti legislativamente alla nostra iniziativa, esaminando come sia possibile irrobustire le nostre organizzazioni e migliorare l'intervento delle strutture di servizio, come i Centri di servizio per il volontariato.
- sia il taylorismo (dal suo teorizzatore, l'americano Frederick Taylor, 1856 - 1915), il sistema produttivo di fabbrica basato sull'automazione della catena di montaggio, dove i lavoratori sono organicamente inquadrati e la gran massa di essi svolge azioni semplici e ripetitive, da "scimmione ammaestrato". La prima introduzione su vasta scala dei metodi tayloristici fu attuata dalla Ford nel 1908 con la catena di montaggio per il modello T, l'automobile destinata a conquistare il mercato per i suoi prezzi competitivi;
- sia un regime di alti salari, cioè di una produzione destinata al consumo interno di massa più che all'esportazione.
Giovanni Arrighi (7 luglio 1937 – 19 giugno 2009) nacque a Milano il 7 luglio 1937. Si laureò in economia all'università Bocconi di Milano nel 1960. Dopo alcuni anni di insegnamento in Italia, nel 1963 si recò in Africa, dove ha prima insegnato all'università della Rhodesia - Zimbabwe, ed in seguito all'università di Dar es Salaam. Sempre in Africa è venuto in contatto con Immanuel Wallerstein. Tornato in Italia nel 1969, Giovanni Arrighi nel 1971 creò a Milano, assieme ad altri, il Gruppo Gramsci, insegnando all'Università di Trento e successivamente all'Università della Calabria. Nel 1979 Giovanni Arrighi raggiunse Immanuel Wallerstein e Terence Hopkins come professore di sociologia al Centro Fernand Braudel per lo studio delle economie, dei sistemi storici e delle civiltà alla State University of New York Binghamton. In quegli anni il Centro Fernand Braudel era conosciuto come il centro principale di analisi dei sistemi mondiali, e attirava studiosi da ogni parte del mondo.
«A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.» dall'art 43. Da notare che prevedendo un ruolo anche per comunità di lavoratori e di utenti per gestire attività di interesse generale, la Costituzione già conteneva il principio di sussidiarietà orizzontale inserito esplicitamente con l'u.c. dell'art. 118 nel 2001.
[31]Vedi, J. O'Connor, La crisi fiscale dello stato, Torino, Einaudi 1979.
Credo sia possibile cogliere la maggior parte dei vantaggi della proprietà privata, e allo stesso tempo eliminare la maggior parte dei suoi aspetti negativi, collocando le attività produttive all'interno di strutture non-profit di media grandezza, decentralizzate e competitive. L'aspetto decisivo è che siano nonprofit, ossia che in esse nessuno riceva "dividendi" o "distribuzione degli utili" e che ogni surplus ritorni all'organizzazione o sia tassato dalla collettività per essere reinvestito altrove……. Negli Stati Uniti la maggior parte delle maggiori università e ospedali funzionano sulla base di questo principio oramai da due secoli. Qualsiasi cosa si possa dire sul loro funzionamento, non si può certo dire che essi siano stati "inefficienti" o "tecnologicamente arretrati" rispetto alle poche istituzioni a fini di lucro esistite. Al contrario. ... E allora perché questo non dovrebbe funzionare per le imprese siderurgiche, per i giganti della tecnologia informatica, per i produttori aeronautici e di biotecnologie? ... Ciò che credo dovremmo tener presente è che la questione fondamentale non è la proprietà, e nemmeno il controllo delle risorse economiche. La questione fondamentale è la demercificazione dei processi economici mondiali. La demercificazione, occorre sottolinearlo, non significa demonetizzazione, ma eliminazione della categoria del profitto. Il capitalismo è stato un programma per la mercificazione di ogni cosa.», I. Wallerstein, Il declino dell'America, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 200-201. Ma anche l'ultimaLettera enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI, Roma 2009.«Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato» e poco più oltre «Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo».
[49]Ciò è avvenuto sia per la riduzione delle tasse sui redditi più elevati (vedi Le colpe Usa nella crisi europea, Jordan Stancil, il manifesto, 03 Luglio 2010, sia per gli squilibri del sistema economico internazionale, che nei paesi prevalentemente esportatori accumula surplus, avanzi, e in altri disavanzi, debito privato e pubblico. Il cerchio poi si chiude perché i paesi esportatori prestano soldi a quelli indebitati.
- il fenomeno grazie al quale la speculazione finanziaria è diventata principio regolatore dell'economia e un fondamentale meccanismo redistributivo (o riappropriativo da parte di pochi, cioè esattamente contrario al meccanismo redistributivo svolto dagli Stati moderni ancor prima dello stato sociale) delle risorse prodotte dall'economia reale;
- la crescente privatizzazione di una serie di beni pubblici;
- l'estensione ed invadenza del mercato ad un livello mai giunto prima nella nostra vita quotidiana.
- gli occupati nel nonprofit sono passati tra il 1991 e il 2001 da 277.896 a 488.523, con un incremento del 75,8%, dati Istat dei censimenti nazionali dell'industria, commercio, artigianato e servizi;
- il 93,2% degli enti nonprofit erano costituiti da associazioni e comitati con 3.039.081volontari, il 2,6% di coopsociali, e solo lo 0.9% di fondazioni, censimento nazionale Istat del nonprofit del 1999;
- che l'89,6% degli enti non profit era sorto dopo il 1971 e l'88,5 dopo il 1981, censimento nazionale Istat del nonprofit del 1999:
- tra la prima indagine Istat sulle Odv iscritte ai registri regionali del 1995 e l'ultima del 2003 queste ultime sono cresciute del 152% in Italia e del 263% nel Mezzogiorno, arrivando a livello nazionale a 21.021 Odv e 855.955 volontari, mentre l'indagine svolta nell'ambito del progetto Fqts sulle Odv iscritte ai registri nelle principali regioni meridionali dava tra 1993 e il 2008 una crescita del 410%;
- le cooperative sociali nel corso di soli 4 anni che intercorrono tra le indagini Istat del 2001 e del 2005 sono passate da
5.515 a7.363, con un incremento del 33,5% in Italia e del 42,9% in Meridione.
- le indagini sociali di Almond, Verba e Snidermann sulla cultura civica negli Usa, svolte tra gli anni sessanta e settanta del novecento e in particolare: G. A. Almond, S Verba, The Civic Culture, Princeton, 1963; P. Snidermann, Personality and Democratic Politics, Berkeley, 1975;
- una bella ricerca poco conosciuta sulla partecipazione democratica a Milano, che svolse R. Mannheimer, allora più impegnato sul piano scientifico che mediatico, per il Comune di Milano-l'Istituto Superiore di Sociologia-Demoscopea, Partecipazione politica, in Bilancio sociale di area, la qualità della vita a Milano: sondaggio su un campione di famiglie milanesi, Milano, 1984;
- infine le ricerche curate da G. Milanesi e in particolare a Volontariati in Europa, Quaderni di volontariato, n. 3 Fivol, Roma 1993, dove si segnalava come in Olanda i volontari hanno un livello di istruzione superiore alla media, in Danimarca il tempo dedicato all'impegno sociale decresce con il livello di istruzione, in Gran Bretagna i volontari sono prevalentemente dei colletti bianchi con istruzione superiore o universitaria.
Lo stesso fenomeno, del resto, si rilevava nei partiti democratici di massa della "prima repubblica": ad es. il quadro attivo del Pci, che sostanzialmente coincideva con i comitati direttivi delle sezioni di base, aveva un livello di istruzione nettamente superiore all'insieme degli iscritti. In proposito vedi: G. Memo (a cura di), Cultura politica e democrazia, cit. pp. 63-64.